“Saremo un giornale socialista, garantista e cristiano. Che cercherà di tenere insieme Gramsci, Rosa Parks, Roncalli, Mandela e Pannella. Dateci una mano”. Magari sì, te la diamo una mano, caro Piero Sansonetti. Basta che poi ce la ridài indietro. L’abbiamo infatti giudiziosamente acquistato, il primo numero della nuova Unità oggi in edicola. Ma di socialista, per cominciare, non abbiamo trovato niente. A meno di non voler considerar tali le dotte dissertazioni di Massimo D’Alema, intervistato a doppia pagina manco fosse il nuovo Lenin, con le pur ottime osservazioni sull’Europa serva degli Usa e sull’importanza di un mondo multipolare (leggi: anche cinese, anche brasiliano, anche indiano, insomma non solo occidentale) e una meno ottima autodifesa sulla sciagurata guerra alla Serbia nel 1999 con i bombardieri Nato che partivano alla volta di Belgrado dalle basi in Italia mentre al governo c’era lui. In sintesi, lo stesso fior di statista che, dopo aver inaugurato la sinistra liberal sul modello anglosassone (la “Terza Via” di Clinton e Blair), spianato la strada alla precarietà per legge (i pacchetti Treu) e aver sostenuto un’Unione Europea guardia carceraria di ogni politica redistributiva (“una visione neoliberista”, ammise egli stesso con eufemismo peloso, e solo nel 2018, “illusoria”), adesso viene a dirci che è l’ora di battersi contro le disuguaglianze e per l’ambiente. Benvenuto, Max: hai campato politicamente per decenni sulla “svolta liberal-socialista” per accorgerti finalmente, sempre assiso sulla tua torre d’avorio, che era tutto sbagliato. L’intelligentissimo D’Alema: come farne a meno, delle sue lezioncine.
Un giornale cristiano, scrive Sansonetti. C’è già, o almeno ci risulta, qualcuno che si definisce tale: Giorgia, donna, madre e cristiana. Ma mentre la Meloni, anziché dirsi “cattolica”, preferisce il termine onnicomprensivo per tenersi distinta dalla Chiesa di Bergoglio, l’Unità sansonettiana fa trasparire un prepotente trasporto per il pontefice gesuita, dal faccione largo e dalle idee, le sue sì, radicalmente anti-liberiste (l’enciclica “Laudato Si’” andrebbe letta alle assemblee di Confindustria, per vedere l’effetto che fa). Ad esempio, si schiera con Francesco e la sua ricerca di mediazione per la pace in Ucraina, sdegnosamente liquidata da Zelenskij come superflua (“non abbiamo bisogno di mediatori”). Bene, bravi, bis. Però lo sanno, Sansonetti & C, che dichiarare il papa “punto di riferimento ideologico” prevedrebbe non di saccheggiarlo quando conviene, facendone un santino pro-immigrazione e pacifista, ma di sottoscriverne anche le tesi quando non conviene, cioè nei suoi coerenti no alla maternità surrogata, all’eutanasia, all’aborto, all’individualismo di massa? Perché, delle due l’una: o è un faro a cui guardare sempre, oppure sarebbe meglio andarci cauti, con l’appropriarsene presentandolo come novello Marx. Anche perché, stando all’abborracciato pantheon di figure esemplari citate dal direttore, è oggettivamente arduo conciliare il capo di Santa Romana Chiesa con Marco Pannella, nume tutelare di tutto il laicismo che fa orrore al buon cattolico. A meno di non pensare che “cristiano” sia inteso nell’accezione, purtroppo molto in voga a sinistra, di genericamente buono, sentimentalmente solidale, moralisticamente indignato che confonde il Vangelo con la pappa del cuore, la fede con l’ideologia. Ecco, appunto.
Garantista soprattutto, il nuovo quotidiano. Questo senz’altro. Garantista per garantire i diritti dei più deboli, proclama Sansonetti. Garantista, in realtà, nel significato corrente di scambiare la difesa dagli errori e storture del sistema giudiziario italiano con un attacco a basso continuo contro i magistrati. La guerra di Piero è la lotta che fu di Silvio Berlusconi all’indomani di Mani Pulite: cogliere ogni occasione possibile per mettere in cattiva luce, e dunque delegittimare agli occhi dell’opinione pubblica, la magistratura in quanto tale. Che, intendiamoci, è sì una corporazione, come gli avvocati, i notai, i baroni universitari (e i giornalisti - quelli, si capisce, ben integrati e incistati nelle redazioni). Ed è sì, spesso, un ambientino dove le logiche di potere interne influiscono sulle carriere, nel modo svergognato con il quale le caste di questo Paese si autoriproducono e puntellano le proprie beghe. E certamente commette sbagli, prende cantonate ed è influenzata, inevitabilmente, dal contesto politico. Ma spararle addosso per partito preso, trattandosi di uno dei tre famosi ordini, con il legislativo e l’esecutivo, di cui si compone l’ordinamento “liberale”, vuol dire segare il ramo su cui è seduto lo Stato, ossia, quanto meno in teoria, su cui siamo noi tutti. Se Sansonetti fosse un bolscevico rivoluzionario, ci starebbe. Ma, a occhio, non pare.
Da Berlusconi, che non aveva nessun senso dello Stato e della cosa pubblica, essendo aziendalista nell’anima e negli interessi, si poteva capire. Ma dall’ultimo sedicente alfiere di una “sinistra” che torna, poffarbacco, all’“ideologia”, a Gramsci (e a Roncalli, Mandela, Rosa Parks eccetera eccetera), fare della battaglia alle toghe la prima e la vera ragion d’essere, la missione totalizzante, il movente autentico di un giornale, qualche sospettuccio lo mette. E ciò che, per carità in perfetta buona fede, si sia sposata una causa non poi così impopolare e proletaria, dato che trova facilmente non solo imprenditori ben disposti a finanziarla (Alfredo Romeo, a processo per traffico di influenze illecite in uno dei filoni dell’inchiesta Consip assieme a Tiziano Renzi, è l’editore sia dell’Unità che del Riformista, diretto da un altro Renzi, Matteo), ma anche compiacenti casse di risonanze assolutamente sproporzionate al numero di lettori paganti, come dimostra la presenza fissa del nostro Sansonetti a Mediaset, e a Retequattro in particolare, dai cui schermi pontifica un giorno sì e l’altro pure.
In sostanza, la neo-Unità è solo un Riformista riverniciato di pseudo-rosso, la cui utilità, a tutta prima, appare misteriosa. Mettendo una a fianco all’altra le due testate sorelle, bisogna dire che vola più alto del Riformista renziano. Ma ci vuol poco: il leader di Italia Viva, in qualità di direttore editoriale, se deve imbastire un confronto d’idee, non riesce a non auto-intestarselo parlando di Job’s Act. Sansonetti, ex direttore responsabile del Riformista, sfodera invece, con indubbia posizione di vantaggio, il vero tesoro dell’operazione, l’archivio storico del quotidiano “fondato da Antonio Gramsci”, librandosi a un livello che è giocoforza superiore. Per il resto, l’abbiocco. Le firme sono o recuperi dalla testata precedente (come Tiziana Maiolo, l’ex comunista ed ex berlusconiana addetta alle bastonature anti-giudici), o strizzatine d’occhio al Pd di Elly Schlein, sostenuto apertamente qui sì, con un certo coraggio (perché di coraggio ce ne vuole, e difatti fra i collaboratori si trova niente di meno che Laura Boldrini – signore, pietà…). Spicca, purtroppo per lui, un Marco Revelli, storico di sinistra vecchio stampo, che forse non ha capito dov’è finito – o forse l’ha capito benissimo. Tralasciamo per umana compassione l’intervento di Luigi Manconi in veste di difensore a spada sguainata dei ragazzi di Ultima Generazione: l’ex lottacontinuista, ex Verde, ex Ds, ex Pd, è l’anti-giustizialista in servizio permanente effettivo che al solo udire la parola “terrorismo” scatta come una molla a schierarsi dalla parte del torto, poiché non c’è “azione che non comporti un prezzo”. Il fatto è che il torto, in questo caso, non è un paradosso: quegli ingenui figli della società dello spettacolo (Guy Debord, do you remember?), torto, alla causa ecologista, lo fanno davvero,e tutto da soli. Ma Manconi, anima candida, non ci arriva.
Queste comunque son quisquilie. Più grave e angosciante è altro, e non ci riferiamo all’illecito e, tuttavia, scontato sfruttamento della memoria gramsciana: è sufficiente sapere giusto due acche del più grande ideologo del comunismo italiano, confrontato con i minestroni sansonettiani che mescolano papi, uomini o donne simbolo dell’antirazzismo e defunti antiproibizionisti, per prendersi un antiemetico e passar oltre. No, il vero horror è l’immagine in prima pagina con un drappo rosso lacero e la poesia dedicata alla bandiera del movimento operaio da Pier Paolo Pasolini. Quello “straccio” non ha nulla a che spartire con un foglio che sembra un ibrido geneticamente manipolato tra il Foglio, Repubblica e il Manifesto. E PPP, che al contrario di Sansonetti i j’accuse di corruzione, stragi e attentati alle istituzioni li lanciava eccome, al punto da scriverli anche senza sapere i nomi (“Io so, ma non ho le prove”), sarebbe meglio lasciarlo in pace. Sansonetti, piuttosto, pensi ai giornalisti e poligrafici, i lavoratori del giornale di cui ha assunto la direzione, che sono stati licenziati e sostituiti in blocco da una pattuglia di suoi fedelissimi. Compagni dai talk e dai tribunali, questa è la nuova voce della sinistra, che per partire lascia a piedi chi ci lavorava. Forse Pasolini gli avrebbe dato dell’ipocrita. Forse, eh.