La rabbia è più frequente della pace. La pace, cioè il perdono, è più rara e più difficile; non solo da ottenere, ma da concedere. Perché si tratta di questo. Rosalba Faraci ha perso il suo unico figlio, Michael, nell’incidente di Brandizzo. L’errore umano, la fatalità, qualcosa che è difficile interpretare da fuori, da sconosciuti, da gente qualunque. La morte è talmente specifica da ricordarci che a volte le parole non valgono quasi niente a meno che non servano per dire grazie a chi, con le proprie, ha saputo darci una grande lezione. Non esiste poeta che possa competere con una madre. Le madri sono dotate di quella musica che non ha spazio tra i comuni mortali. La voce di una madre per un figlio, in questo caso per la morte di un figlio, sono come uno strumento mai suonato che riprende vita in una villa desolata. In un mondo che cade a pezzi, le parole di una madre sono l’oro per riparare le crepe dei muri e, soprattutto in quest’occasione, dei cuori.
Ce lo dice lei cosa dobbiamo fare, al di là delle indagini che spettano a chi ha competenza nel caso. Ancora non passa in quella stazione a vedere i binari, perché la calce usata per segnare dove sono stati ritrovati i brandelli è la cartuccia di una mitragliatrice che un’anima non può sopportare. Le mamme possono tutto, ma questo no. Davvero. Quindi non bisogna credere che sia facile per lei riferirsi ad Antonio Massa, il tecnico che con un suo “ok” avrebbe provocato la tragedia, con parole che rasentano il candore del pianto, delle lacrime che una donna può covare dentro per così tanto tempo da farle uscire filtrate, pure, trasparenti. Le sue parole sono questo genere di lacrime, perché stillano dal dolore ma anche dalla comprensione, dall’empatia. Non glielo ha chiesto nessuno, anzi. Tutti hanno atteso che potesse accusare alla cieca il mondo. Perché un figlio che muore non lo accetti, non lo puoi accettare. E invece lei, contro ogni desiderio della società spettacolarizzata, ha parlato da madre, rendendo il più grande omaggio possibile a suo figlio.
E dice: “Io non giudico nessuno, tantomeno lui. È un lavoratore, era lì per dare da mangiare ai suoi figli e immagino che oggi sia un uomo morto dentro. Non mi permetto di buttargli la croce addosso”. Ecco, quella croce, un simbolo che torna e che è stato troppo a lungo letto come una suggestione narrativa, un orpello a un racconto già di per sé abbastanza drammatico. Perché Michael ha visto la croce in un pezzo ferro che stava saldando, una croce incandescente che ha scelto di fotografare e mandare proprio a suo madre. Si è chiesto cosa fosse: “È la prima volta che mi succede. Mentre saldo la rotaia mi è uscito un crocifisso. Dio mi vuole dire qualcosa...”. Lo chiede a sua madre: “Ma’, secondo te che vorrà dire? Sarà un brutto segno?”. Ma Rosalba lo rassicura: “Ma no, vedrai che sarà un segno buono...”. A volte i simboli, quelli fatti di carne e di storia, sono però imperscrutabili. Agli occhi dei più aveva ragione lui, ma qualcuno può ancora pensare, a buon diritto, che invece fosse lei ad avere ragione. Dovremmo cominciare a prendere sul serio la croce. Non solo questa, che può riguardare e interessare, in fondo, solo chi ha fede. Ma quella del giudizio e della pena, la croce che Rosalba ha scelto di non gettare sulla schiena di un uomo “morto dentro”. Saremo in grado di capire questa lezione e fare come lei?