“Domani” cambia padrone senza cambiare padrone. Carlo De Benedetti, 91 anni, annuncia che lascia il quotidiano a una fondazione con una dote di 4 milioni di euro. Tradotto: niente shopping industriale, niente nuovo padrino editoriale, ma un "ombrello" economico che dovrebbe blindare identità e linea. E lui? "Io non scappo, continuerò a seguire con passione il giornale", promette. Che suona come certi vocali su WhatsApp: brevi, perentori, consegnati e archiviati. Non è un fulmine a ciel sereno. Nel 2020, in mezzo alla pandemia e dopo il trauma di Repubblica e Gedi finiti in casa Elkann, De Benedetti aveva detto: quando il giornale sarà in equilibrio, passerà a una Fondazione. Oggi, per il quinto compleanno di “Domani”, onora quell’impegno. Con un dettaglio non irrilevante: l’equilibrio ancora non c’è. I conti restano in rosso (perdite che sfiorano il milione), ma la previsione, parola dell’editore e della squadra, è il pareggio entro un anno. Ricetta: spinta forte sul digitale, abbonamenti costruiti attorno a newsletter verticali, e gestione più diretta dei rapporti con le imprese. Il rischio? Tenere insieme la vocazione “indipendente, progressista, riformista” e la realtà di un mercato pubblicitario che non fa sconti a nessuno.

Nel nuovo assetto pesano tre nomi: Antonio Campo Dall’Orto (che si occuperà della transizione), il direttore Emiliano Fittipaldi e la redazione. Sono loro, più dei milioni in cassa, a dire se “Domani” avrà un domani. La missione resta quella delle origini: niente cronaca di nera, niente sport da bar, focus su politica, economia, ambiente, inchieste. Un’impostazione che in Italia di solito fa stimare dai colleghi e penare i conti. Ma è anche ciò che ha dato al giornale una sua riconoscibilità: pezzi scomodi, temi fuori dal coro, poca voglia di correre dietro al trend del giorno. Il gesto dell’ingegnere ha pure un sottotesto familiare: i figli non sono interessati all’editoria. E allora avanti con la soluzione-ponte più “europea” che abbiamo: la Fondazione. Già nel 2020 De Benedetti descriveva un modello con un consiglio di “saggi” e patrimoni dedicati, mentre Luigi Zanda guidava la nuova società editrice di start-up. Oggi aggiorna il disegno: "Troveremo persone di alto profilo, in sintonia con la vocazione del giornale". Progressisti, indipendenti, riformisti. Sembra una playlist, ma è un manifesto.

C’è poi l’autonarrazione, che a De Benedetti riesce sempre bene: l’esilio svizzero per sfuggire alle leggi razziali, la formazione torinese tra Galante Garrone e Bobbio, la tessera di partito, l’idea di un quotidiano come atto civile quando la politica s’era sgonfiata e i giornali di area avevano smesso di parlare al “mondo liberal”. “Domani” come eccezione: l’unico quotidiano europeo nato nel pieno del Covid. Visione, coraggio e, non dimentichiamolo, soldi veri. Resta la domanda che vale più dei 4 milioni: si può garantire futuro a un giornale che sceglie di essere serio in un’epoca che preferisce l’intrattenimento? Il digitale può aiutare, le newsletter possono fidelizzare, ma la sostenibilità passa da una cosa antica: costruire comunità. Non “fan”, non “utenti”, ma lettori. Quelli che rimangono quando non è di moda, che pagano quando il titolo non è clickabile, che difendono una linea anche quando fa perdere like. De Benedetti ha fatto la sua mossa: ha messo al riparo il marchio, ha tolto alibi a chi lavora, ha provato a scongiurare il destino di tanti esperimenti editoriali italiani: brillare un paio d’anni e per poi implodere tra debiti e nostalgie. Ora tocca a Fittipaldi e soci far sì che “Domani” non diventi il solito ieri che non torna più. Perché il punto non è se l’ingegnere se ne va, ha già detto che resterà a guardare, ma se il giornale saprà camminare senza stampelle. Il futuro? Non è scritto. Ma almeno, per una volta, è finanziato. E in un mercato editoriale dove spesso si improvvisa, non è un dettaglio. L'inizio della fine o un nuovo inizio?