Il film si apre e si chiude con una frase che, se non avessimo la storia di Antonio Negri a illuminarla, potrebbe sembrare un’espressione di cinica disaffezione, ma che invece è la sua chiave di volta, la sua vera abiura: “Preferisco conoscere te che riconoscere me”. In questa confessione c'è il germe di tutta la sua filosofia della gioia, della potenza del conatus. Toni, l'uomo, non il filosofo o il politico, ha sempre preferito la scoperta, il movimento, l’essere-in-divenire piuttosto che il fossilizzarsi in una fotografia, in un’identità. Riconoscere sé stesso significherebbe accettare di essere un monumento, un'icona, una statua da ammirare o da abbattere. Ma lui, il vero Toni, quello che si rade la barba ogni mattina come atto di resistenza durante il carcere speciale, non può permettersi il lusso della staticità. Neanche da carcerato. La rasatura non è un banale atto di igiene, ma un gesto spinoziano di conatus, di affermazione di sé contro l'identità che gli è stata cucita addosso. È un togliere, un levare, per poter ricominciare a esistere ogni giorno, in ogni istante. Sono le passioni felici contro quelle tristi. Ma a che cosa resiste? Resiste al “mondo” che Anna, sua figlia, tenta di rappresentare. Resiste a quel mondo che ha costruito l'immagine pubblica di Toni Negri, l'uomo dello “schifo mediatico” che gli è stato scaricato addosso fino al giorno della sua morte (“se ne va il cattivo maestro”) e che si sente a suo agio solo quando non è chiamato a riconoscersi in qualche etichetta appicciata con la colla. La sua voce presunta sul nastro d’archivio dell’album telefonata del riscatto per Aldo Moro, un frammento d'archivio che riaffiora come un fantasma, è un eco di un’epoca in cui le parole avevano un peso, una potenza, ma che oggi sono ridotte a un rumore di fondo, a una facile etichetta. Non era lui ovviamente ad aver ucciso Moro, ma intanto l’Espresso ci deliziò con dei gadget per i suoi lettori che mostravano la presunta colpevolezza di Negri. Oggi, come all’epoca, il potere mediatico affiancò quello giudiziario: lo schifo addosso. E qui, Anna, con l'onestà brutale che la contraddistingue da sempre come regista, ci mostra come questo “schifo” non sia solo un'eco del passato, ma un’eredità che ancora oggi, per chi ha il coraggio di guardare, definisce il presente.
Il Conflitto e la Potenza della Sostanza Spinoziana
Anna Negri ha scelto di raccontare un conflitto, anzi, una serie di conflitti: quello familiare, quello politico, quello filosofico. Il film non è “Anna, sua figlia”, ma “Toni mio padre”, perché Anna è sempre in relazione a lui, come un'espressione della sua sostanza. Suo malgrado, come più volte denuncia nel film. “Sei sua figlia? … ah”. Spinoza, su cui tanto Toni ha lavorato in galera, ci insegna che tutto ciò che esiste è un’espressione dell'unica sostanza, Dio o la Natura. E Anna, sua figlia, è un’espressione di Toni, che ne è a sua volta un’espressione. Non c’è gerarchia ma unità. Il film, forse, doveva chiamarsi “Anna, sua figlia” davvero, penso mentre scrivo, e sottolineare questa dipendenza ontologica, questa tensione che si risolve solo nella gioia. Non a caso, uno dei momenti più toccanti del film è la gioia che irrompe, che rompe la pesantezza della narrazione nei piccoli momenti di quiete in cui Toni sorride all’improvviso e Anna smette di piangere. Quella gioia, quella risata, è la manifestazione del conatus, della potenza di esistere che si afferma contro ogni passione triste. In quel momento, il padre e la figlia non sono più due identità separate, ma due espressioni della stessa sostanza che si riconoscono, non nell'identità, ma nella gioia della loro comune esistenza. Come forse, penso ancora tra me e me, tutte le figlie che sono state separate da padri dalla “giustizia” italiana. Il film, con il suo andamento apparentemente slegato, fatto di frammenti d'archivio, riprese attuali, vecchi filmati di famiglia e conversazioni intime, ci fa capire che il conflitto non è un problema da risolvere, ma il motore stesso dell'esistenza. E quando si scambia il conflitto familiare con la violenza tutto termina: in questo senso, o non sarebbe un film attraverso Negri, diviene metafora perfetta il conflitto politico. Il “comando capitalista” non è solo un'astrazione, ma un potere che si insinua nelle relazioni, che le deforma, che le rende impossibili. Questo film di Anna Negri, a mio avviso, ha il grande merito di mostrare questo intreccio, di farci vedere come il personale sia intrinsecamente politico. Malgrado la disperazione di una figlia che vorrebbe solo parlare con il suo papà.

La Differenza Femminista e l'Altro da sé
Uno dei punti più interessanti e, a mio avviso, più coraggiosi del film è l'attenzione che Anna dedica al femminismo attraverso la lente distorta del rapporto di Toni con le donne, con la sua ex moglie Paola, con le compagne di Lotta Continua … un campo minato. Anna, con estrema sensibilità, fa emergere la prospettiva di Paola, la madre, che forse ha vissuto in prima persona l'egoismo di un uomo interamente assorbito dalla politica e dalla filosofia. Il film non fa sconti, non cerca di giustificare, ma mette in discussione l'uomo Toni. E lo fa mostrando come il femminismo italiano, con figure come la pur amatissima Muraro a cui Negri dedica “la differenza italiana”, abbia affrontato una battaglia diversa rispetto a quello internazionale. Una battaglia non solo per i diritti, ma per il riconoscimento di una differenza che non è una mancanza, ma una potenza. Negri, da questo punto di vista, sembra quasi aver compreso questo aspetto solo a metà, o forse, a causa del suo egocentrismo, non è riuscito a integrarlo pienamente nella sua filosofia. Anna lo fa per lui. Mostra l'"egoista uomo con Paola" e al contempo ci fa capire che la vera gioia, il vero bene comune, non può essere raggiunto se non si riconosce la potenza dell'altro, il suo conatus autonomo.

Il Passato e il Futuro: Il 1976 e L'Oggi
Il film è intriso di una profonda nostalgia per gli anni Settanta, per quell'epoca in cui “sembrava tutto possibile”. La festa del proletariato giovanile del 1976 al Parco Lambro in una Milano oggi scomparsa, immortalata in un frammento di filmato d'epoca, è la rappresentazione visiva di questa utopia. Un’utopia di corpi che si muovono insieme, che ballano, che costruiscono comunità. Nudi, come nuda è la vita di cui Giorgio Agamben e Toni Negri hanno spesso discusso insieme. Ma Anna non si limita a mostrarci questo passato glorioso. Ci mette di fronte alla sua fine, alla sua implosione. E lo fa in modo brutale, facendoci vedere l'allegato che ho già citato dell'Espresso del 1976, che chiedeva una “perizia” su Negri. Un documento che è un atto di accusa, un tentativo di medicalizzare la politica, di ridurre la complessità a una patologia… la passione per gli italiani per le presunte perizie che dovrebbero dimostrare l’indimostrabile. Il solito sonno della ragione. Oggi, invece, “tutto sembra impossibile”. Forse stiamo vivendo l’inverso esponenziale degli anni ‘70 del 900: anche oggi violenza e conflitto, ma senza nessuna velleità rivoluzionaria a fargli da paesaggio morale. Così il film di Anna Negri ci invita a riflettere su questo passaggio presunto. Che cosa è successo? Come siamo arrivati a questo punto? Il film non dà risposte facili, come facile non è la filosofa di Negri, ma ci suggerisce che la sconfitta non è stata solo politica, ma anche esistenziale. Una sconfitta del conatus, una vittoria delle passioni tristi.

Una domanda resta in sospeso, dopo la visione, ovvero se il film sia davvero solo un atto di amore e comprensione di una figlia per il padre o se sia anche, e forse soprattutto, un tentativo di Anna di farsi riconoscere, non da Toni, ma dal mondo. E in questo senso, la sua scelta di non chiamarlo “papà” ma sempre e solo “Toni”, è un atto politico. È il tentativo di superare la filiazione per instaurare un rapporto tra due persone, tra due conatus autonomi. Toni mio padre è un film difficile, che richiede allo spettatore uno sforzo, un'attenzione che il cinema contemporaneo non è abituato più a chiedere. Ma è uno sforzo che viene ripagato, soprattutto per chi come chi scrive a studiato a fondo l’opera di Toni Negri. Perché alla fine della visione, non solo abbiamo un quadro più chiaro di Antonio Negri, l'uomo, il filosofo e il politico, ma abbiamo anche un'idea, spero più profonda, di cosa significa esistere in un mondo che sembra aver perso la capacità di essere gioioso, che si nutre di passioni tristi e che ha dimenticato la potenza di un gesto semplice come radersi la barba anche mentre il mondo attorno crolla, per poter ricominciare a esistere ogni giorno. La potenza di quella barba che poi è il mantra “io sono vivo qui, adesso”. La filosofia, in questo senso, non è mai stata un esercizio astratto per Toni Negri, qui la grande distanza con Giorgio Agamben, ma una pratica di vita. Meglio, per i filosofi in ascolto: una forma di vita. E Anna, con il suo film, ci ha mostrato come quella pratica si sia tramandata, non attraverso le parole, ma attraverso il corpo, il conflitto, la gioia di un padre e una figlia coi piedi impigliati nella Storia.
