Una semplice domanda. Una cravatta. Un nome. Oggi di 50 anni fa, alle ore 9 e 10 della mattina e sotto casa sua, fu ucciso Luigi Calabresi, 34 anni, romano, vicequestore di Milano. Stava per salire sulla sua Fiat 500 blu. Un uomo, la giustizia gli ha dato un nome e un cognome: Ovidio Bompressi, arriva da dietro e lo fredda con due colpi, uno alla nuca e uno alla schiena. Calabresi era colpevole di aver torturato e buttato dalla finestra di Piazza Fontana l’anarchico Giuseppe Pinelli. Non era vero, ma secondo loro, secondo Lotta Continua, doveva pagare. Era il 1972. E fu il primo omicidio di un periodo a cui poi la storia darà il nome di “anni di piombo”. L’omicidio che ci ha fatto perdere la verginità. Oggi, 50 anni dopo, al di là dei processi, delle colpe, di tutto, su La Stampa e Repubblica escono due interviste: alla moglie Gemma e al terzo figlio, Luigi anche lui, che suo padre non l’ha mai conosciuto. È nato sei mesi dopo, i suoi fratelli avevano due e un anno, Mario, futuro giornalista di fama, e Paolo.
Signora Gemma Calabresi, lei sogna suo marito? Inizia così l’intervista. Lo sogna sì. Lo tiene per mano, scappano, si nascondono, lei sa già che si salverà mentre lui no. Lo sogna sì. In un ristorante, sente un’esplosione, lei grida di uscire, lui le dice che non è successo niente. Il suo modo di calmarla. Oggi di 50 anni fa le ultime parole che Luigi ha rivolto a Gemma furono una risposta a una semplice domanda, appunto: «Perché ti sei cambiato la cravatta?». Se l’era messa rosa, l’aveva sostituita con una bianca. «Perché rappresenta la mia purezza». Poi è uscito per non rientrare più e restare giovane, nei sogni, nei valori. L’ha capito dopo, Gemma: «Quelle parole erano il mio testamento, come se avesse voluto dirmi: continueranno a calunniarmi ma sappi che io sono puro e innocente». Luigi, il figlio, nella seconda intervista dimostra di aver capito tutto: «Mia madre ha trasformato il lutto in qualcosa per farci crescere con più valori, con più rispetto». C’è riuscita. Oggi, 50 anni dopo, la storia di Luigi Calabresi è una storia che sa di onestà, di integrità, di dignità. Di forza. Di come una mancanza può diventare potenza, motore, fautrice di coraggio. A questo serve ciò che accade. Non a perseverare nella nostalgia, non a piangere, non a rimpiangere, non a trovare scuse. Non alla rabbia: a questo.
Oggi, nello stesso giorno, ma 50 anni dopo, Gemma si sente libera e in pace perché ha perdonato, un pezzo alla volta. Mentre un passo alla volta Luigi, ancora oggi, va sulla tomba del padre. C’è sempre andato, pur non avendolo mai visto in faccia. E lì si sfoga, si cura: «Se non altro con lui ho sempre potuto parlar chiaro, non rischiavo né il rimprovero né un ceffone, gli ho sempre raccontato il bello e il brutto di me». I suoi genitori si aspettavano fosse una femmina, invece lui fu il terzo maschio. Luigi Antonio Giuseppe, nomi fotocopia del padre. Luigi è cresciuto, si è fidanzato, sposato, poi la moglie resta incinta. Non vuole sapere il sesso. Una volta partorito la guardano, è femmina, «ha una faccia da Chiara, chiamiamola così». Luigi esce dalla sala parto, dice ai parenti che l’avrebbero chiamata Chiara. Sua madre sbianca. «Che hai?». «È il nome che tuo padre avrebbe voluto per te se fossi stata femminuccia». È così, conclude Luigi, «mi piace pensare che mio padre mi abbia messo le mani sulla testa e abbia voluto essere nonno, partecipare alla nostra festa». Non a perseverare nella nostalgia, non a piangere, non a rimpiangere, non a trovare scuse. Non alla rabbia. A questo serve ciò che accade, a questo.