Uno strazio. Non si fa tempo ad aprire Instagram che subito ci si piazza davanti il piagnisteo del giorno. Se avevamo già avuto modo di rendere omaggio al molesto proliferare del fenotipo "influencer piangina", eccoci ad analizzarne una mutazione non meno temibile: quelli che tengono la sindrome dell'impostore. Oramai così di tendenza che ogni giornalista si sente in dovere di buttare la domanda celo-manca pure si trovasse innanzi al Papa, cerchiamo di capire cosa sia e come mai assuma dei contorni così effimeri da rasentare, ancora una volta, il ridicolo. Dai Ferragnez in giù, però, ce l'hanno tutti. E noi seguiamo.
Diamo a Freud ciò che è di Freud: la sindrome dell'impostore esiste. E cosa fa? Ti mangia? No, teorizzata per la prima volta sul finire degli anni Settanta dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes, da allora è così che viene chiamata la sensazione di non essere all'altezza, l'impressione - e non l'impression - di non meritare i propri successi personali o comunque le cose belle che, vuoi o non vuoi, alla fine nella vita capitano pure all'ultimo degli stronzi.
La prima a parlare apertamente di questo disagio è stata, ovviamente, Chiara Ferragni quando, nel 2021, per la prima volta sulla cover di Vogue Italia, concesse un'intervista a Michela Murgia che titolava proprio così: "Felice di potermi difendere con un clic, ma ho la sindrome dell'impostore". Da quel momento, abbiamo visto le migliori menti dei nostri sciagurati influencer affannarsi nella gara del copia e incolla spudorato. Ne soffrono, dice, Aurora Ramazzotti e Miriam Leone, mentre all'estero il tedioso morbo è arrivato a contagiare perfino Meryl Streep e Michelle Obama. Come anche Robert Pattinson, Emma Watson e... sticazzi?
Su le mani dagli smartphone, almeno per cinque secondi e date un'occhiata intorno: siamo tutti impostori. Nessuno di noi, oggi, sta facendo il lavoro per cui ha davvero studiato, se ha studiato. E la minima percentuale che, invece, ha avuto un percorso nettissimo, si ritrova spesso e volentieri impigliata in un mestiere che si immaginava molto diverso, sulla carta. Uno studia filologia e nel mezzo del cammin della sua vita, gli scoppiano in faccia i social: vengono richieste nuove competenze (nuove sì, ma sempre sottopagatissime), il mondo del lavoro cambia vorticosamente giusto il tempo di cantare "Dottore, Dottore del buco del cul" e ci si ritrova a fare la fila su LinkedIn, la Caritas dei CEO presso se stessi.
Se noi comuni mortali ogni giorno ci ritroviamo a fingere skill e proattività per mettere due croccantini in saccoccia a fine mese e che Zuck ce la mandi buona, che l'azienda non fallisca, che a nessuno vengano in mente repentini tagli al personale dalla sera alla mattina, dobbiamo sucarci pure il virtual privilegio che frigna, fa introspezione e, grazie all'aiuto di amici, famigliari, una mezza dozzina di sherpa nepalesi alle sue dipendenze, ci comunica di sentirsi stronzo. Beh, lo è. Ve lo ricordate quello che guadagnava dobloni infilandosi patatine fritte nel deretano (grazie, OnlyFans) e che è trasceso in un pianto isterico quando Instagram gli ha oscurato il profilo? Leit motiv: "Io a lavorare non ci voglio andare", singhiozzo, "da mio zio, in cantiere", affanno, "No!". Un alfabeto morse dell'afflizione che, per un attimo, ha squarciato il velo di Maya sull'essenza stessa degli influencer (sì ok, per carità, non di tutti gli influencer). Però.
Invece di lamentarsene, quando non addirittura stupirsene, un influencer medio dovrebbe aver ben cara la sensazione di inadeguatezza che questa tremenda sindrome dell'impostore gli regala: è una consapevolezza importante, da tenere sempre presente per non perdere il contatto con la realtà. Ossia giusto per evitare di fare la fine di un Denis Dosio qualunque (sì, quello delle patatine di cui sopra) che, dopo un trionfale Grande Fratello Vip (in cui venne squalificato per bestemmia), s'è ritrovato a esplodere nella propria stessa bolla di niente, pestando i piedini social in cambio di - più che opportuni - sberleffi e risa.
A essere (considerati) grandi ci vuole pochissimo, ma ancora meno si impiega a prendere un biglietto di sola andata per l'oblio. Solo pochi anni fa, nessuno poteva vivere senza Msn. Oggi Msn è Pleistocene pure per i nostalgici. Non stiamo dicendo che anche i social diventeranno presto lingua morta, ma è importante sottolineare l'esistenza di un sistema che crea privilegio a un numero sempre crescente di persone che, per tutta risposta, hanno pure la faccia di lamentarsene. E noi come stronzi restiamo a guardare, anzi, gli mettiamo pure i cuori perché "Eh sì, guarda come soffre, porell*".
La narrazione sulla sindrome dell'impostore non crea empatia, non fa luce sulla salute mentale, non apporta alcun beneficio a qualsivoglia tema sociale o persona fisica di sorta. È mera amplificazione dell'ovvio: tutti non ci sentiamo all'altezza almeno una volta nella vita ed è sanissimo che sia così. Eh, ma se addirittura Chiara Ferragni ogni tanto crede di non farcela, figuriamoci noi come dovremmo stare messi. Bene, dovremmo stare messi bene, a prescindere dai piagnistei di chi ci miracola l'insostenibile pesantezza di una routine strepitosa.
La sindrome dell'impostore è, in definitiva, solo un capriccio che sui social ha trovato la sua incubatrice e che stiamo alimentando, tra stampa e follower, ancora una volta dimenticando di dar peso alle parole, al contesto, alla realtà fattuale. Impostori lo siamo tutti, è cristallino. Ma possiamo sempre essere anche meno imbecilli di così. Si spera.