Si era presentata come qualcosa di molto somigliante a una lunga estate crudele per la famiglia di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983. Un quarantennale importante, segnato da una serie di avvenimenti che si sono rincorsi senza sosta. Poi, improvvisa, ma solo apparente, la quiete. Il giorno prima il nome di Emanuela non faceva che riempire le prime pagine di qualsivoglia giornale, poi il silenzio. Ma in quello strano silenzio c’era sempre qualcosa che faceva rumore, come un fastidioso ticchettio lontano ma che piano piano si avvicinava. L’attesa per la calendarizzazione in Senato per la discussione in aula per l’istituzione della Commissione d’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela e Mirella Gregori, altra quindicenne romana scomparsa il 7 maggio 1983, è finita. L’udienza e voto in aula è stata fissata per il prossimo 10 ottobre. Ma prima del silenzio c’era stato qualcosa che aveva smosso tutti i tasselli del puzzle, qualcosa che aveva l’ardire di consegnare all’opinione pubblica un colpevole. E il dito era stato puntato dritto dritto contro la famiglia Orlandi. Mario Meneguzzi, zio acquisito di Emanuela, “sarebbe invischiato nella sua scomparsa”. Pietro Orlandi ha subito smentito e mandato al mittente qualsiasi accusa, scardinandola una per una durante una conferenza stampa. E allora perché ne stiamo parlando ancora? Il giornalista e scrittore Pino Nicotri, autore del libro “Emanuela Orlandi, il rapimento che non c’è”, che a lungo si è occupato di questo caso di scomparsa, in un articolo pubblicato su BlitzQuotidiano è tornato a parlare ancora una volta dello zio di Emanuela.
Ma facciamo un passo indietro. Siamo nel 1978, cinque anni prima della scomparsa di Emanuela. Natalina, sua sorella maggiore, riceve delle attenzioni particolari da parte dello zio Mario, marito della sorella di suo padre. Attenzioni che a suo dire sono state totalmente travisate, fino a farle diventare un ponte collegato alla sparizione di Emanuela. Via l’ipotesi del terrorismo internazionale, la malavita e la possibilità che possa essere invischiato il Vaticano stesso. Il colpevole era sempre stato in famiglia. Dicono, tentano di far credere. La famiglia Orlandi non vacilla, ed è Natalina stessa a raccontare la sua verità, l’unica che conta: “Mio zio ha fatto delle semplici avances verbali e un regalo, ma quando ha capito che non c’era nessun tipo di possibilità è finito tutto lì. Indubbiamente in un primo momento sono rimasta scossa e la prima cosa che ho fatto è stato parlarne con il mio fidanzato Andrea, che oggi è mio marito. Di questa cosa non sarei mai andata a parlare con mio padre, l’unica persona con cui mi sono confidata è stata il nostro padre spirituale. Ed è finito lì, questo è stato il grande rapporto che c’è stato con mio zio. Non c’è stato assolutamente altro". Andrea e Natalina sono stati convocati entrambi dal magistrato incaricato del caso Domenico Sica nell’agosto del 1983, due mesi dopo la scomparsa, e in quel momento la storia delle avances fu messa a verbale. 1983, nessuna grande rivelazione quindi.
Mario Meneguzzi è stato l’uomo che, immediatamente dopo la scomparsa della nipote, ha tenuto i rapporti telefonici con i presunti rapitori, sostituendosi al padre di Emanuela, Ercole Orlandi, troppo scosso dalla mancanza della figlia. Tuttavia, l’aiuto che ha dato alla sua famiglia è stato presto scambiato, confuso per qualcos’altro. Meneguzzi è stato pedinato, come ha raccontato un investigatore, oggi in pensione, che per vent’anni ha seguito il caso della sparizione della cittadina vaticana, in un’intervista al Corriere della Sera: “Seguimmo Mario Meneguzzi, ispezionammo anche casa sua, ma la pista tramontò presto. Su di lui ci attivammo, su nostra iniziativa autonoma, fin dalle primissime ore. Ci colpì quel suo attivismo eccessivo, i modi di fare di chi sembrava sicuro di essere più importante di un semplice zio di Emanuela Orlandi. Poi però chiarimmo tutto e capimmo anche il perché si comportasse così. Con la sparizione della nipote non ha nulla a che fare”. Senza dimenticare che il giorno della scomparsa della nipote Meneguzzi si trovava nella casa di Torano, distante da Roma, insieme alla sua famiglia. Ed è proprio lì che riceve telefonicamente la tragica notizia: “Meneguzzi fece quello che era giusto fare, data la sua posizione. Lavorando al bar della Camera aveva conoscenze, amicizie, poteva bussare a porte che alla famiglia sarebbero state invece precluse. Si rivelò al di sopra di ogni sospetto”. Una posizione chiarita quindi, e che sembrava essere archiviata. Sembrava, prima che Nicotri tornasse a parlarne. Noi di MOW abbiamo contattato Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, che ci ha così questo ritorno in “auge” della notizia: “Caso strano nella settimana in cui era prevista la calendarizzazione per la Commissione Nicotri ritira fuori questa storia, tra l’altro con alcune cose non vere… Non a caso anni fa in Procura lo definirono depistatore seriale…”.