Quanto vale la parola di un padre? O sarebbe meglio chiedersi quanto valgano le parole in generale, se vengono considerate pericolose e non il segnale di un pericolo. Se si preferisce curare il vocabolario eliminando la “malattia mentale” invece che curare il malato mentale. È brutale, ma non è difficile convincersene. È davvero poco interessante chiedersi perché oggi si sia così lontani dal ritenere fondamentale la parola di un padre o la parola di una malata di mente, che aveva già minacciato suo figlio Giovanni. Come non credere a una madre che dice all’ex marito Paolo Trame: “Ricordati bene che se io muoio anche Giovanni muore con me! E non pensare che io stia scherzando”.
Facciamola più semplice, come perdonare Olena Stasiuk, la donna che ha sgozzato forse con un coltello da cucina suo figlio Giovanni di 9 anni, “un biondino, appassionato di calcio, a cui tutti volevano bene”, dice il prete della Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Muggia. Perché state pur certi che qualcuno la perdonerà, non tanto negando la tragedia, ma riversando la colpa su tutti fuorché su di lei, sul sistema. Perché malata oggi è quasi sempre sinonimo di vittima.
Siamo così convinti che la malattia ti renda una vittima che ormai non accettiamo più di definire, per esempio, un femminicida o un padre che uccide sua moglie e i figli a mattonate un malato di mente, per paura che in questo modo si ridimensionino le sue colpe. È la liquidazione totale dell’intelligenza critica, che confonde una condizione fattuale e la morale (ma chiunque abbia letto un po’ di filosofia sa cos’è la “fallacia naturalistica”, sa, cioè, che non esiste nessun motivo per cui la condizione fattuale debba farci cambiare opinione morale su un evento).
Secondo questo schema Olena era malata e non è chiaro perché non fosse ancora in cura, né perché potesse vedere suo figlio senza controlli, come era stato negli anni precedenti. La colpa, quindi, è di chi non l’ha assistita. O di chi ha solo “eseguito”, come suggerisce il sindaco di Muggia, basandosi sulle indicazioni del tribunale. Se aggiungiamo qualche fatto, però, la cosa diventa meno controversa, se non addirittura semplice. Così semplice che fa rabbia credere che nessuno abbia scelto di prevenire ciò che era prevedibile.
Per esempio dicendo che due anni fa Olena aveva già cercato di ammazzare suo figlio strozzandolo. Giovanni sopravvisse ma finì in ospedale con una prognosi di tre giorni. La madre ha stretto il collo del figlio, gli ha contato le vertebre cervicali. Perché non è finita lì? Perché la madre aveva diritto di vedere suo figlio? Quella donna, un'assassina fallita, ci avrebbe riprovato. La sua malattia mentale, qualsiasi cosa avesse, era solo una parte di questa storia. L’altra parte erano gli eventi che si sono susseguiti. La cronaca, malata di psicologismo, si è concentrata sulle condizioni della madre, ma non su ciò che davvero aveva fatto.
Avrebbe voluto far sparire suo figlio, ci è riuscito qualche anno dopo, con un coltello più grande della testa del figlio. E il padre lo sapeva, tant’è che aveva avvertito tutti. Era preoccupato, chiedeva di non lasciare da solo Giovanni con Olena, sapeva che non è un problema di legge, o di psiche, ma della malattia profonda che taglia i ponti di qualsiasi parentela. Nessun uomo, è ovvio, dovrebbe restare sotto il tetto della donna che ama picchiare. Anche se quella pulsione violenta è oscura, incalcolabile e, infine, malata. Perché una madre dovrebbe avere privilegi diversi?
Si è figli di ciò che ti tiene in vita, non di ciò che cerca di ammazzarci. Giovanni è morto, una donna malata ha forse tentato il suicidio, forse no (le ferite che si è fatta erano superficiali, decisamente diverse dal trattamento riservato al suo piccolo), un uomo si è sentito male e probabilmente continuerà a sentirsi male per sempre. Nessuno ha dato peso alle sue parole, o a tutte le parole che questa storia ci sbatte in faccia: malattia, tentato omicidio, assassina (assasina), irrecuperabile.