Ghali a Domenica In ha risposto alle accuse dell'ambasciatore israeliano rivolte al Festival di Sanremo (ritenuto dal diplomatico un luogo in cui sono stati diffusi segnali di odio e provocazione) sostentendo che nel Paese ci sia una politica del terrore che renderebbe la gente sempre più riluttante nel condividere messaggi di pace e dissenso per la guerra in atto in Medioriente. Ghali ha deciso di portare sul palco dell’Ariston il brano Casa mia, una canzone impegnata, ricca di immagini che arrivano dritte a chi le ascolta come fossero coltelli, o bombe. Da Milano a una terra che assomiglia a Gaza (anche se la Palestina non è mai menzionata), dalla descrizione di esseri umani simili a “zombie col telefono in mano” a uomini e donne i cui “sogni si perdono in mare”, forse il cantante nel suo pezzo ha anche fatto riferimento a tutte quelle persone che ieri sceglievano un nome da dare ai propri nascituri e invece ora si ritrovano ad assegnare un numero alle loro salme, chissà... Per un ascoltatore attento, i suoi versi sono ben poco appannati, non serve sforzarsi tanto per intuire quale sia il suo pensiero. Ma al di là delle convinzioni del singolo su quale delle due parti abbia ragione, è bello credere che ci sia il desiderio collettivo di un accordo di pace e che la guerra non piaccia a nessuno. Ghali è riuscito a calcare il palco dell’Ariston evitando inutili perifrasi, in Casa mia dice: “Come fate a dire che qui è tutto normale che per tracciare un confine con linee immaginarie bombardate un ospedale per un pezzo di terra o per un pezzo di pane”. Non importa a nessuno da che parte stiate, l’ha detto Dargen D’Amico (e sì, fa abbastanza ridere il fatto che si debbano citare i cantanti su questioni politiche, ma tant’è…) e pure Diodato, che nella seconda puntata del Festival si è soffermato solo sul bisogno di alzare la voce per implorare la pace: “È importante che gli artisti mostrino la propria umanità, il silenzio è colpevole”. E ha ragione. Il punto è che, come sottolineano tutti questi autori, bisogna parlare, sforzandosi di tornare umani, denunciare, dire quello che si pensa senza fare del male a nessuno. Ed è per questo che risulta curioso pensare che Ghali abbia invece potuto urtare la sensibilità di qualcuno solo perché ha chiesto la fine del dolore per un popolo stremato. Ghali non deve chiedere scusa, al massimo doveva solo essere più preciso nello specificare che oggi di genocidio non si può parlare, perché sarà la Corte penale internazionale a decidere su Israele. Ma tornando al Festival c'è da dire una cosa: Amadeus avrebbe potuto pensare a un momento di autocoscienza collettiva sulla guerra, ricordando anche il terribile attentato del 7 ottobre ai danni del popolo israeliano da parte di Hamas anziché architettare quel decadente balletto di papere e paperi con John Travolta.
Tornando a Ghali, come ha fatto ben intendere lui stesso nel suo brano e pure nel suo intervento a Domenica In, pare che anche fuori dall'Ariston non ci sia più neppure l'ombra di una qualsiasi forma di coraggio, sui social ma sopratutto tra noi, anche al bar con cappuccino e cornetto, di dire “Cessate il fuoco”, di invocare la pace, di chiedere di farla finita. Ghali si è trovato nella situazione di dover spiegare all'ambasciatore israeliano e a chi forse lo accusa di fare propaganda filopalestinese che il suo modo di fare musica e di scrivere pezzi consiste semplicemente nel guardare fuori da casa sua. Dove da qualche parte di morti se ne contano a migliaia. Ha poi aggiunto di essersi interessato a questi temi ben prima dello scorso 7 ottobre. “È da quando ho 13-14 anni che parlo di quello che sta succedendo nelle mie canzoni. Sono nato grazie a Internet e non è dal 7 ottobre che ne parlo, questa cosa va avanti già da un po'...”. Touché. E come in una scena di Poor Things di Lanthimos, ma senza servirsi di nessun effetto speciale, il rapper ha trascritto quello che ha visto fuori dalla finestra o in uno schermo, la documentazione della sofferenza, bambini trucidati, prati in cui il cielo non è poi così blu e il prato neppure così verde, come recita il suo brano. Ghali ha voluto esprimere il suo dissenso sulla guerra, sui morti, sui ragazzini che come lui, come noi, un giorno sarebbero potuti essere qualcuno. A Domenica In, Ghali ha detto: “Continua questa politica del terrore, e non va bene. La gente ha sempre più paura di dire ‘stop alla guerra’ e 'stop al genocidio'. Le persone sentono che perdono qualcosa se dicono ‘viva la pace’, non deve succedere questo. Ci sono i bambini di mezzo: io da bambino sognavo e ieri sono arrivato quarto a Sanremo. Quei bambini stanno morendo, chissà quante star, quanti dottori, quanti geni ci sono tra loro”. Fare diventare questa faccenda un caso di Stato e aspettare che la Rai chieda scusa per le esternazioni fatte dai suoi ospiti è assurdo. Cosa dovrebbero scrivere nel comunicato di scuse istituzionale: “Chiediamo perdono per aver permesso di invocare la pace”?