Diciotto anni dopo il delitto di Chiara Poggi, l’inchiesta si ritrova a inseguire un altro “ignoto”. Non un killer, stavolta, ma forse “solo” una svista da laboratorio. Secondo la Procura di Pavia, il Dna parziale e degradato trovato nella bocca della ventiseienne potrebbe appartenere a un cadavere esaminato prima del suo durante un’autopsia. Una contaminazione involontaria, dicono gli inquirenti, ma comunque tale da rimettere in discussione una delle poche presunte tracce rimaste. Il profilo genetico maschile, etichettato come “Ignoto 3”, era stato isolato su una garza usata durante l’esame autoptico. E ora, stando alle nuove verifiche, mostrerebbe una compatibilità genetica con un soggetto identificato con un codice numerico anonimo: 153E. Nel dettaglio, si legge nel comunicato firmato dal procuratore capo Fabio Napoleone: “Il reperto 335283-114472 ha evidenziato una concordanza degli alleli in relazione al soggetto identificato dal codice 153E. Tale dato, in questa forma incompleta, è suggestivo della provenienza del materiale biologico maschile di cui al reperto 335283-114472 dal soggetto identificato dal codice 153E”.

In altre parole: il Dna di Ignoto 3 potrebbe non essere legato all’omicidio, ma a un corpo morto per cause naturali, passato sul tavolo dell’obitorio prima di Chiara. Un errore, forse. Ma anche un dato che rende necessarie nuove verifiche. Per questo la Procura ha affidato gli accertamenti all’antropologa forense Cristina Cattaneo, volto noto della medicina legale italiana, già coinvolta in casi di cronaca complessi come quello di Yara Gambirasio e Liliana Resinovich. Non si esclude, a questo punto, una riesumazione del corpo dell’uomo identificato come possibile contaminante, per ottenere il profilo genetico completo e chiarire ogni dubbio. Ma il problema resta: come può finire il Dna di un altro cadavere nella bocca di una vittima di omicidio? È il classico cortocircuito all’italiana: anni di perizie, arresti, processi, e poi, nel mucchio, spunta l’ipotesi che un errore di protocollo abbia inquinato una prova cruciale. Alberto Stasi resta in carcere, condannato in via definitiva, ma l’ombra di un’indagine che traballa è sempre lì, a un passo dalla storia.

