Secondo Roberta Bruzzone, quella parte lì Alberto Stasi non ha mai voluto mostrarla a nessuno. Nemmeno allo psicologo del carcere. Nemmeno dopo diciassette anni. «È un’area di sé che continua a proteggere, anche oggi che è in semilibertà. Non ne parla, non ci entra. Ed è proprio in quella zona che potrebbe annidarsi il movente dell’omicidio». La criminologa non si limita a un’analisi generica. Ha visto la perizia informatica del processo, ha letto i file, ha studiato il comportamento digitale di Stasi. E parla di parafilia: un disturbo della sessualità che sposta il desiderio su stimoli devianti. Ma quello che colpisce non è solo il contenuto, è il metodo. «Era pornografia estrema, raccapricciante. Ma soprattutto organizzata in modo ossessivo, maniacale. Sembrava la collezione di un esperto, non quella di un ragazzo di 24 anni». E non è solo un dettaglio inquietante: è il cuore di un buco nero psicologico che, a distanza di quasi due decenni, continua a fare paura anche ai giudici. In una recente relazione del Tribunale di Sorveglianza – rimasta sotto traccia fino all’ultimo provvedimento – si legge che la fruizione compulsiva di materiale pornografico, anche violento, potrebbe essere stata «il movente o quanto meno l’occasione del delitto».


La scena che viene ricostruita fa rabbrividire. Quella mattina, prima di denunciare la scomparsa di Chiara Poggi, Alberto Stasi avrebbe passato almeno quaranta minuti a guardare video porno estremi. Non ne ha mai parlato. Non l’ha mai spiegato. Come se quel pezzo della giornata non esistesse, o non fosse rilevante. E invece, dice la Bruzzone, è proprio lì che si apre uno spiraglio. «Il fatto che continui a evitare quell’aspetto, anche nel confronto clinico, ci dice quanto non lo gestisca. È un punto cieco della sua psiche. E il fatto che la sua emotività sia totalmente scollegata dalla sofferenza altrui, come rilevato dal collega, è un elemento che pesa». Il punto è: se Chiara avesse scoperto quel lato oscuro? Se avesse intuito l’entità di quell’ossessione, e magari ne avesse parlato? «È plausibile che lei fosse diventata un pericolo, proprio perché avrebbe potuto rivelare quel segreto alla cerchia più intima di Alberto. In quel caso – prosegue la Bruzzone – avrebbe rappresentato una minaccia concreta». Al netto della buona condotta, dei permessi premio e del lavoro esterno, resta un vuoto che né i processi né la detenzione hanno mai colmato. Nessuna traccia di empatia, nessuna elaborazione emotiva per la morte di Chiara. Solo freddezza, rimozione, controllo. Ma il controllo, quando diventa ossessione, non è più un’armatura: è un allarme. E forse, quel giorno, secondo la criminologa Chiara l’aveva sentito suonare.

