Giulia Tramontano non doveva morire. Doveva solo smettere di essere un problema. E, nel contorto piano di Alessandro Impagnatiello, quel problema si chiamava Thiago. Così dicono i giudici della Corte d’Assise d’Appello, che hanno confermato l’ergastolo all’ex barman, ma hanno escluso la premeditazione. Perché l’omicidio, secondo loro, non sarebbe stato pensato per mesi, ma deciso solo il giorno stesso. «Non vi sono prove che consentano di retrodatare il proposito di Impagnatiello di uccidere Giulia rispetto al giorno in cui l'ha accoltellata», scrivono nelle motivazioni. Nonostante i mesi di veleni versati nel piatto. Nonostante le ricerche online sul topicida iniziate già sei mesi prima, appena saputa la notizia della gravidanza. Secondo la Corte, tutto questo non dimostra che volesse uccidere la compagna, ma solo che voleva liberarsi del bambino. «Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto del feto e non l’omicidio della madre», si legge. Perché? Perché mancherebbero «sostegni indiziari» per confermare che, già allora, volesse toglierle la vita. Per i giudici, l’idea che Impagnatiello «abbia accarezzato il proposito di sbarazzarsi della compagna» appena scoperta la gravidanza è solo una congettura. Una suggestione, insomma. E invece, secondo l’avvocato Laura Sgrò è proprio il contrario: «Non condivido le motivazioni della Corte d’Appello relativamente al mancato riconoscimento dell’aggravante della premeditazione», ha detto. Lo fa con toni asciutti ma chirurgici, tenendo la rabbia sottopelle. «Le sentenze si rispettano, ma esiste la libertà di opinione e di critica, e la mia modesta opinione è che l’aggravante avrebbe dovuto essere riconosciuta».

Perché non servono mesi di complotti per parlare di premeditazione. Basta la lucidità, la freddezza, la capacità di esecuzione. Tutte cose che Alessandro Impagnatiello aveva. «C’è giurisprudenza che dice che bastano anche poche ore per premeditare un omicidio, se c’è lucidità e distacco. E qui ritengo ci fossero. La freddezza c’era. La preparazione c’era. L’eliminazione delle tracce, pure». E poi c’era quel veleno, silenzioso e vigliacco, che Impagnatiello ha somministrato per mesi. «In modo subdolo, quasi invisibile». Un piano a più strati, fatto di azioni che parlano più delle parole. «Il giorno in cui la povera Giulia è stata uccisa, Impagnatiello rimuove il tappeto, copre il divano con un telo, cerca su Google come eliminare le tracce dalla vasca da bagno, poi scrive a Giulia: “Fammi sapere quando torni”». Tutto in fila. Tutto studiato. «Quando lei entra in casa, lui l’aggredisce subito. Non c’è discussione, non c’è una lite che degenera. È un attacco studiato. E dopo simula la fuga volontaria di Giulia. È tutto parte di un piano». Anche sulla questione dell’avvelenamento per colpire solo il feto, la Sgrò dissente. E lo dice con una frase che pesa come pietra: «Non è possibile scindere la madre dalla creatura che porta dentro di sé, Thiago è nel corpo della madre, vive perché vive la madre, e anche perché, a mio modesto avviso, era Giulia con tutto ciò che portava con sé l’ostacolo, non solo il piccolo Thiago». Non era un raptus. Non era una lite degenerata. Era un piano. Lento, meticoloso, e quindi ancora più feroce.

