Trentasette giorni di ricovero, una polmonite bilaterale, notti con l’ossigeno ad alti flussi, la ventilazione, i bollettini. Le preghiere, la paura, le speculazioni. Poi, il ritorno. Papa Francesco ha lasciato ieri il policlinico Gemelli, dove era ricoverato dallo scorso 14 febbraio. E prima di lasciare l’ospedale si è affacciato al balcone, visibilmente provato ma sorridente, per ringraziare i fedeli. “Grazie a tutti, vedo questa signora con i fiori gialli” ha detto, prima che la fatica lo fermasse. Ma tanto bastava: giù in piazza, tra mani alzate e occhi lucidi, il grido corale “Papa Francesco” ha coperto tutto il resto. Tutto, tranne quello che succedeva su un altro altare: quello dei social. Perché mentre le telecamere del mondo erano puntate su un uomo di 88 anni sopravvissuto a una crisi respiratoria gravissima, in Italia il pensiero collettivo era rivolto altrove. Non al Papa vivo. Ma al “Papa morto (a detta di Corona)”. Ovvero alla profezia sbagliata di Fabrizio Corona, diventata, e non c’è altro modo di dirlo, la notizia vera del giorno.

Sì, perché appena Francesco si è mostrato al mondo, non si è celebrato solo il ritorno del Pontefice: si è festeggiato anche il “fallimento di un ex paparazzo con velleità da veggente”, scrivono. Meme ovunque, storie, reel, commenti. Su Instagram, TikTok, Twitter: chiunque aveva da dire qualcosa sul fatto che Corona “aveva sbagliato”. Che aveva “toppato”. Che, insomma, “stavolta gli è andata male”. Ed è su questo che si è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica. Non sulla salute del Papa, ma sull’ego ferito di Corona. Anche se nessuno ha capito che in questo modo il suo ego non solo non viene intaccato, ma cresce. Cresce perché si è reso conto di essere il vero protagonista di una giornata che nessuno sarebbe riuscito a macchiare. Ha distolto l’attenzione anche qui, e la colpa, scusate, ma è di chi glielo ha concesso. Perché c’è qualcosa di profondamente distorto in tutto questo. Anche firme autorevoli del giornalismo italiano si sono prese il tempo di commentare il fatto che Corona no, questa volta non ci avesse preso. Come se quello fosse il vero centro del racconto. Come se lui fosse il protagonista morale della giornata.

Il Papa? Per alcuni quasi un dettaglio di contesto. Ed è qui che scatta la domanda: ma se anche nei giorni in cui il Papa torna a farsi vedere dopo essere stato dato per morto il protagonista resta Fabrizio Corona, allora che Paese siamo? Siamo davvero un Paese che si lamenta del “troppo spazio al criminale”, ma poi dedica proprio a quel criminale, ogni volta, il proprio tempo e il proprio seguito, i propri riflettori? La risposta è una sola ed è inquietante: Corona fa più hype del Vaticano. Fa più engagement della Chiesa. Fa più rumore di un Pontefice che per trentasette giorni ha lottato tra la vita e la morte. E che oggi, invece di essere semplicemente accolto come simbolo di resilienza, è diventato lo sfondo di una faida digitale in cui il vero bersaglio è Corona. E allora sì, il ritorno del Papa è una buona notizia. Ma il modo in cui l’abbiamo raccontato, vissuto, condiviso, è l’ennesima prova che siamo un Paese che si nutre di contraddizioni. Dove anche una “resurrezione” può finire in secondo piano, se non regala abbastanza like. Forse un ricovero (coatto) servirebbe a tutti, nessuno escluso, per cogliere, finalmente, il significato della parola “priorità”.