Più che un’assemblea, sembra uno stallo alla messicana in attesa che a qualcuno scappi il primo, fatidico, colpo. Il 16 giugno a Piazzetta Cuccia va in scena lo showdown tra Alberto Nagel, l’amministratore delegato che vuole ridisegnare Mediobanca come polo del wealth management tricolore, e Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore e oppositore di lungo corso, che con il suo 10 per cento ha già iniziato a sparare ad alzo zero sull’ops lanciata su Banca Generali. Sullo sfondo, con il suo 19,8 per cento, Delfin guarda e soppesa parole e scenari. L’operazione di Nagel – ambiziosa, visionaria o disperata, a seconda di chi la racconta – punta a fondere Mediobanca e Banca Generali per creare un colosso da 210 miliardi di euro in gestione, abbandonando il vecchio ruolo di regista occulto di Generali e sganciandosi dallo storico 13 per cento detenuto nel Leone di Trieste. Ma qui arriva il cortocircuito: le azioni di Generali sarebbero usate come moneta di scambio, scombinando gli equilibri già precari della compagnia triestina, dove Caltagirone e Delfin sono già dentro e pronti a colmare il vuoto lasciato da Mediobanca. L’ad ha incassato l’ok dei fondi (BlackRock, Vanguard, Calvert), il via libera dei proxy advisor Iss e Glass Lewis, e ha macinato chilometri tra New York e Londra per vendere il progetto ai grandi investitori. Eppure, la strada è tutt’altro che spianata. L’assemblea è vincolata dalla passivity rule, visto che anche Mediobanca è sotto attacco da parte di Monte dei Paschi di Siena (Mps). Servono almeno il 50 per cento dei voti per partire. Caltagirone, che gioca su più scacchiere (è anche socio di Mps e di Generali), ha chiesto di rinviare l’assemblea per carenze informative e intanto ha radunato attorno a sé le casse previdenziali e altri soci “romani” pronti a mettergli la croce sul piano.

A questo punto, tutti guardano a Delfin. Finora ha sempre votato in sintonia con Caltagirone, ma stavolta la holding lussemburghese e portagioielli della famiglia Del Vecchio guidata da Francesco Milleri gioca una partita più sottile. Delfin ha interessi incrociati in Mediobanca, Generali e Mps, e sa che ogni mossa rischia di alterare il suo stesso equilibrio. Per questo prende tempo: Milleri apprezza “lo sforzo strategico” di Nagel, ma aspetta dettagli concreti prima di esporsi. Se voterà contro, sarà una mazzata per il ceo; se si asterrà, potrebbe far saltare i numeri; se voterà a favore, legittimerà la rivoluzione. Intanto si muovono anche altri pezzi sulla scacchiera: Edizione dei Benetton, le casse previdenziali (Empam, Enasarco), il patto di consultazione da quasi il 12 per cento (non vincolante), i voti dei fondi americani. L’affluenza potrebbe superare l’80 per cento, alzando l’asticella della maggioranza effettiva ben sopra il 40 per cento. Insomma, non è una semplice partita di governance: è una resa dei conti tra visioni opposte del capitalismo italiano. Nagel gioca per trasformare Mediobanca, Caltagirone per mantenere le leve del potere (magari spostandole a Roma), Delfin per restare il vero arbitro. Chi vince si prende tutto: il controllo, il modello di business e forse anche il futuro di Generali. Chi perde rischia di diventare solo un comprimario nella saga infinita del risiko bancario italiano.
