Chiara Ferragni è stata rinvita a giudizio per truffa aggravata, ma ne risponde a piede libero. Cioè continua sfacciatamente e impunemente a condurre la sua vita di sempre: in attesa di essere processata. Io non ci sto. Pretendo delle risposte da chi ha gestito questa indagine. Anche perché 11 anni fa, la mia vita è stata letteralmente distrutta da un arresto ingiusto e spettacolare per una presunta truffa che nei fatti non è stata mai provata. Nel 2008, dopo la sanguinosa strage di Duisburg, ho fondato il Movimento delle donne di San Luca e della Locride: un’associazione di donne che ha segnato un cambio epocale nella storia del paese riconosciuto universalmente come il quartier generale della 'ndrangheta calabrese. Senza sponsor, senza sostegno politico, abbiamo lavorato costruendo nuove opportunità per le donne e la comunità. Dal recupero della devianza, alla valorizzazione degli antichi mestieri: il telaio tradizionale, la panificazione a mano. Il movimento divenne un’attrazione internazionale. Si parlava di noi in ogni angolo del pianeta tanto che l’Enel Cuore - la Onlus dell’Enel - decise di finanziare la realizzazione di una ludoteca in un bene confiscato alla mafia, con un contributo di 160mila euro. Quella villetta fuori paese, che sulla carta doveva essere sede di corsi di formazione del Ministero degli Interni, era in realtà un rudere. Mancava persino la rete fognaria nei bagni: ma li non indagò nessuno! Nel 2013 il mio libro, che riassumeva la storia del movimento donne, divenne un monologo teatrale prodotto da Bananas - Zelig. Andava in scena una Calabria fatta di speranza, di persone di buona volontà: una terra in cui cambiamento era possibile. C’era solo bisogno di più Stato! Mi arrestarono, raccontando al mondo intero una serie di bugie certificate su un’ordinanza scandalosa. “Vestiti di lusso, una settimana bianca e una minicar” che avrei acquistato ovviamente con i soldi dell’associazione. Era il 12 dicembre 2013. Il giorno del mio arresto 121 giornali riportarono la notizia: 11 in prima pagina con la foto del mio volto bene in vista. Partì un linciaggio mediatico senza precedenti che da “eroina dell’antimafia” mi trasformò in poche ore in un mostro. Da quel giorno la mia vita è stata letteralmente devastata. Ho subito insulti, minacce di morte, una violenza inaudita da parte di gente che scriveva sui social che “meritavo di essere tagliata a pezzi e data in pasto ai porci”. Mi hanno assassinata civilmente: scorticata viva in ogni senso. E insieme a me anche mia figlia. Ebbero la decenza di mandarmi agli arresti domiciliari che durarono 19 lunghissimi giorni. Chiuse le indagini di quelle accuse vergognose non vi restò più traccia. Quando mi presentai per parlare con il pm mi disse che “non c’erano prove e per questo avevano eliminato ogni addebito”. Ma si erano accertati che ci fossero delle prove prima di arrestarmi e di rendere pubbliche quelle accuse infamanti? Dissero che acquistavo vestiti di lusso… Presentai al pm un contratto d’affitto regolarmente registrato di un appartamento in cui vi era allestita la sede legale dell’associazione. La padrona era una donna che risultava essere anche “proprietaria di boutique di alta moda”. Chi condusse quell’indagine stabilì diabolicamente che 9 assegni, della stessa cifra e tutti emessi entro i primi 5 giorni del mese, erano dei pagamenti a rate presso la boutique della signora. Liberata dagli arresti domiciliari, sono stata costretta a firmare per 330 giorni presso una stazione dei carabinieri: come fanno i sorvegliati speciali.
Chiaramente sono stata condannata in primo grado. Questa vicenda si è conclusa con una ridicola prescrizione. Dopo il giudizio di primo grado sono passati 5 anni e mezzo, prima dell’avvenuta prescrizione, e la Corte d’Appello di Reggio Calabria non ha mai trovato un giorno disponibile per discutere il mio caso. Forse sapevano che avrebbero dovuto assolvermi e non potevano rischiare brutte figure dopo l’impatto mediatico della mia vicenda. Ho lasciato l’Italia, giurando di non volerci tornare nemmeno da morta. Disgustata dall’affarismo, dal doppio standard e dalla politicizzazione della giustizia: il più grande dei mali. Senza giustizia una società non può essere sana: e quando la giustizia diventa ingiusta o serve interessi di parte, allora la malattia che ne deriva è ancora più devastante. A 41 anni ho dovuto ricominciare da zero, dopo aver perso tutto: familiari, amici e tutto ciò che avevo costruito. In Italia, dopo quello che i giornalisti servi dei magistrati avevano scritto su di me - con fascicoli consegnati in anticipo per orchestrare meglio il linciaggio - non avrei trovato lavoro neanche per fare le pulizie. Non solo io ho pagato un prezzo altissimo. Anche la mia famiglia ha sofferto moltissimo. Mio padre ha 91 anni, soffre di Alzheimer. Tiene sempre con sé un vecchio portafoglio, dove custodisce l'articolo del giorno in cui mi arrestarono. Ricorda solo quell’arresto e morirà senza sapere che sua figlia è stata mai assolta, o che il suo nome è stato ripulito. Ferite che non guariranno mai come una maledizione. I giorni passano, ma quel dolore resta immutato. Mi sento come se fossi stata marchiata a fuoco. Come fossi una “fine pena mai”. Ancora dopo 11 anni c’è sempre qualcosa che mi riporta a quella orribile disgrazia, a quei giorni di sgomento e a quel senso profondo di abuso, di prevaricazione e di impotenza. A volte cambio il mio nome per evitare che la gente possa googlare chi sono… Ho sviluppato una strana forma di claustrofobia, svengo nei luoghi dove non riesco ad identificare la via d’uscita. Dal trauma ho avuto l’anoressia, l’insonnia, l’alopecia, la balbuzie. Mi sono rialzata. Non si sfugge mai davvero a un’ingiustizia così.
Oggi mi rivolgo al magistrato che ha condotto le indagini, alla Procura di Milano, al Presidente della Repubblica come capo del Consiglio Superiore della Magistratura: chiedo che la legge venga applicata, senza sconti e senza doppi standard. Con oltre 2 milioni di presunti profitti illeciti, denaro raccolto da persone in buona fede che hanno creduto nei ripetuti e consapevoli appelli della Ferragni: come è possibile che non sia stata arrestata? Io lo voglio sapere. Cosa ha Chiara Ferragni di più o di diverso rispetto a Rosy Canale di 11 anni fa? Quale messaggio stiamo dando ai nostri giovani? Che truffare la gente, cavalcando cause nobili, è possibile e alla fine si risolve tutto con una pacca sulla spalla? Stiamo davvero legittimando la truffa e il crimine solo perché chi li commette gode della ribalta mediatica? Mi chiedo se in Italia il reato è valido e perseguibile a seconda di chi lo commette, o esiste forse una qualsiasi forma di politicizzazione di questo procedimento giudiziario? È lecito chiedersi da che parte stia chi gestisce questa indagine? Perché non dimentichiamolo: Chiara Ferragni è stata usata dal Pd come simbolo elettorale. E con il suo atteggiamento ostentato incarna il volto più triste di un “wokeism” all’italiana che tenta miseramente di imitare quello americano. L’assenza di un arresto potrebbe anche rivelare un sottile gioco di equilibri politici e mediatici. Chiara Ferragni è stata spesso associata a posizioni politiche specifiche e ha sostenuto apertamente determinate campagne elettorali, diventando un volto familiare anche nella sfera politica. La sua figura è stata utilizzata come simbolo di modernità e apertura da alcune forze politiche, e ciò solleva dubbi su una possibile “protezione” che vada oltre la pura applicazione della legge. La mancata detenzione preventiva di Chiara Ferragni, considerato il reato contestato, non è solo una questione tecnica. Lo ribadisco con forza: è un messaggio distruttivo per chi crede ancora nell’equità del sistema giudiziario. La Ferragni continua a vivere la sua vita come se nulla fosse, tra eventi glamour e campagne pubblicitarie, mentre persone comuni, in situazioni analoghe, vengono spesso trattate con la massima severità. Come è capitato a me. Questa disparità crea un danno morale incalcolabile: la giustizia non appare più come un principio inflessibile, ma come una struttura piegata alle circostanze, pronta a fare eccezioni per i “potenti e visibili” a colpire duramente i più “deboli e invisibili”. Se la legge è selettiva, se la giustizia diventa una questione di fama o di connessioni, il patto sociale si infrange e con esso la fiducia dei cittadini. Vogliamo davvero arrivare a questo per salvare la faccia di Chiara Ferragni?