Se il tema non fosse serissimo e in ballo non ci fosse una possibile escalation nucleare e la minaccia di una Terza Guerra Mondiale, potremmo derubricare la decisione del Parlamento europeo di riconoscere la Russia come stato «sponsor del terrorismo» come un al-Qaeda qualsiasi a una «boiata pazzesca», per usare un’espressione di fantozziana memoria. Invece, parafrasando le parole di Ennio Flaiano, la situazione politica europea «è tragica ma non seria» e forse i politici che hanno preso questa decisione non sanno bene quello che fanno. Che è un po’ la sensazione che si ha, senza che nessuno si senta offeso, quando si commentano le azioni del Parlamento europeo. Ne abbiamo parlato con Daniele Lazzeri, chairman e fondatore dell’autorevole e influente think-tank «Il Nodo di Gordio». Il centro studi, accreditato presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale come Ente internazionalistico, viene descritto come «espressione di quel necessario dialogo tra Oriente e Occidente: un ponte culturale volto a favorire l’incontro tra due mondi distanti geograficamente ma uniti da uno spirito che affonda le proprie radici nella notte dei tempi». Nel board del think-tank anche il noto storico Franco Cardini, che in questi mesi ha battagliato in tv per raccontare una prospettiva diversa della guerra in Ucraina e fuori dal coro del «mainstream»: esternazioni che gli sono valse l’immancabile etichetta di «filo-putiniano». Che fantasia.
Lazzeri, il Parlamento europeo ha riconosciuto la Russia come stato sponsor del terrorismo. Cosa ne pensa di questa decisione e quali implicazioni può avere sul piano diplomatico?
Questa scelta che potremmo definire scellerata, complica ulteriormente i già delicati equilibri che rischiano di sfociare in una guerra aperta tra Oriente e Occidente. Dopo le sanzioni “boomerang” comminate alla Russia, con i devastanti ed esplosivi effetti sui costi energetici che stanno mettendo in ginocchio soprattutto l’Europa, con questa decisione del Parlamento europeo si mette in discussione anche quel flebile spazio per addivenire ad una trattativa diplomatica che metta fine al conflitto. Certe scelte, purtroppo, hanno conseguenze di lungo corso e, anche in un domani lontano, non saranno scevre di ritorsioni economiche e ribilanciamenti nelle relazioni internazionali.
Gli Stati Uniti, attraverso il capo di stato maggiore Mark Milley, sembrano aver cambiato approccio rispetto a qualche mese fa rispetto alla guerra in Ucraina, e paiono auspicare una possibile tregua tra Kiev e Mosca. Che succede ora con i repubblicani che hanno riconquistato la maggioranza alla Camera, nonostante la performance deludente dei candidati di Trump?
Le riflessioni del Capo di Stato Maggiore Milley sono ispirate ad un sano realismo militare. È da qualche mese che l’Amministrazione guidata da Joe Biden, pur insistendo con toni minacciosi e di severa condanna nei confronti del Cremlino, sta percorrendo sotto traccia una via diplomatica per addivenire ad una soluzione onorevole per entrambi i contendenti. Il vero cruccio di Washington, e non da ieri, è la progressiva affermazione internazionale della Cina sia da un punto di vista economico e commerciale, sia per l’indiscutibile successo della politica di soft power esercitata da Pechino in vaste aree del pianeta. I timori per l’acuirsi delle tensioni con Taiwan, il progressivo – e quasi imposto – avvicinamento con la Russia finita sotto l’ombrello protettivo del Presidente Xi Jinping e la prosecuzione della “conquista” commerciale cinese esercitata in numerosi Paesi africani, impongono un progressivo cambiamento della strategia aggressiva di Washington nei confronti di Mosca.
Lo stesso Milley ha spiegato che l'Ucraina non può vincere la guerra e occorre negoziare. È davvero così?
Non posso che convenire che l’unica via d’uscita a questo conflitto che si sta trascinando ben oltre i tempi previsti dall’esercito russo, sia un negoziato che – ripartendo dagli accordi di Minsk del 2015 – conceda alla Russia un’ampia indipendenza legislativa nelle regioni separatiste del Donbass e risolva definitivamente la posizione della Crimea. Certo, non si tratta di un accordo di facile realizzazione ma, giunti a questo punto, sarà difficile che Putin possa accettare un arretramento rispetto a queste posizioni. Alla stessa stregua, nemmeno il Presidente Zelensky, pur finanziato ed armato dalle potenze occidentali, può pensare di proseguire in una guerra al massacro che finirà per devastare ciò che resta dell’Ucraina. In qualche misura, Washington ha già fatto intendere che sta giungendo l’ora di una mediazione non più procrastinabile e che il devastante scontro sul terreno non può proseguire all’infinito. In una recente intervista a “Der Spiegel”, Angela Merkel, storica ed apprezzata Cancelliera tedesca, ha voluto rimarcare come ritenga ancora possibile una pressione esercitata dalla Germania nei confronti della Russia per giungere alla fine delle ostilità. Come lei, sono molti gli Stati europei che iniziano a chiedersi – magari sommessamente – se davvero valga la pena morire per Kiev. Finora, Washington e Bruxelles hanno combattuto una “proxy war”, una guerra per procura, dove – per l’appunto – a morire si è mandato il popolo ucraino. Mi chiedo per quanto a lungo ancora sarà possibile sostenere di fronte al mondo l’ennesima ipocrisia dell’Occidente…
Va detto però che, sul fronte interno russo, c'è un po' del malcontento per come sta andando la guerra. Le dichiarazioni del filosofo Aleksandr Dugin - in un post poi subito rimosso e smentito dallo stesso autore - la dicono lunga sul clima che si vive a Mosca.
Al di là che il post di Dugin sia più o meno vero, sono ben note le sue posizioni – come quelle di gran parte degli analisti e politici che gravitano intorno al Cremlino – sull’assoluta necessità di ripristinare gli equilibri geopolitici in vigore fino al 2014 nelle aree di confine tra Russia e Ucraina. Il totale fallimento degli accordi di Minsk e le insistenti richieste di Kiev per accelerare l’adesione prima all’Unione europea e, quasi per automatismo, siglare l’ingresso nella Nato rappresentano una palese minaccia per la stabilità e la stessa sopravvivenza della Federazione russa che ha vissuto questa possibilità come un indiscutibile tentativo di isolamento internazionale ed un sintomo premonitore del definitivo annichilimento di una potenza storica come quella rappresentata da Mosca. Il messaggio attribuito al filosofo Dugin è sintetizzabile con la frase: “Pieni poteri in caso di successo, ma anche piena responsabilità in caso di fallimento”. Ciò è stato letto come un chiaro avvertimento a Vladimir Putin in caso di progressivo ritiro dalle posizioni conquistate nel corso di questi lunghi mesi di guerra. Arrivati a questo punto, si rende necessaria a mio avviso una trattiva che non umili nessuno dei contendenti. Gli Stati Uniti sono ben consci del fatto che non è per nulla scontato che un’eventuale deposizione di Putin possa condurre ad un percorso di occidentalizzazione della Russia. Anzi, con tutta probabilità, si profila all’orizzonte una radicalizzazione verso posizioni più antioccidentali, consegnando direttamente ciò che resta dell’ex impero sovietico nelle braccia della Cina. E questo, per Washington, è un tarlo non da poco…