Quindici anni. La scuola, i sogni appesi alle pareti della cameretta, la triste illusione che la famiglia sia il porto sicuro. Poi il 26 agosto 2010 tutto si spezza: Sarah Scazzi scompare. Non per una fuga, non per un amore adolescenziale andato storto. No. Scompare perché qualcuno che le sedeva accanto a tavola ha deciso che la sua voce doveva spegnersi. Per sempre. A ricordarlo oggi, nel quindicesimo anniversario della sua scomparsa, è Roberta Bruzzone. Criminologa, psicologa forense, voce nota nei casi in cui la cronaca smette di essere notizia e si fa trauma collettivo. E la storia di Sarah Scazzi è ancora lì, piantata nella memoria di un Paese intero. Perché ci riguarda. Perché ci ha fatto paura. “Sarah aveva solo 15 anni. Un'adolescente come tante, con sogni semplici, un futuro da immaginare, il bisogno di sentirsi amata e protetta”, scrive la Bruzzone in un post sul suo profilo Facebook. “E invece la sua vita è stata spezzata brutalmente proprio nel luogo che avrebbe dovuto rappresentare un rifugio: la famiglia”. L’inizio è sempre lo stesso. Si parla di un allontanamento volontario. “Un copione tristemente noto, che rischia di depistare fin da subito le indagini”. Poi iniziano i depistaggi veri, quelli tossici: “Chi avrebbe dovuto collaborare scelse di occultare, di confondere, di proteggere se stesso invece che la verità”.

La verità, invece, è sempre stata lì, dolorosa, scomoda: Sarah non era vittima di uno sconosciuto. “Ma di chi le stava accanto”. Il volto del male, stavolta, non era dietro un cespuglio, né sotto un cappuccio. Era in casa, nella quotidianità. Nella banalità della violenza che nasce dentro le relazioni, non fuori. Un paradosso devastante, lì dove ci si aspetta cura e amore, si possono celare le dinamiche più oscure: invidia, manipolazione, violenza, fino all'annientamento. E allora non si può più far finta di niente. Non si può continuare a raccontare la famiglia come se fosse sempre e comunque il bene assoluto. “La storia di Sarah ci ricorda che non sempre il pericolo arriva da fuori. Spesso indossa i volti familiari, si nasconde dietro abbracci apparenti, cresce nel silenzio delle mura domestiche”. Le parole della criminologa pesano come macigni. “Ricordare Sarah significa avere il coraggio di guardare in faccia questa verità: non possiamo permettere che la ‘famiglia’ diventi un alibi dietro cui occultare la violenza. Non sempre il male bussa alla porta da estraneo. A volte siede a tavola con noi”. E se oggi la memoria di Sarah è ancora viva, è anche perché ha lasciato un segno profondo: quello che ti sveglia la notte, che ti fa guardare le persone con occhi diversi. Che ti ricorda che il pericolo, a volte, lo chiami per nome.

