Il Palazzo del Cinema, appena ritinteggiato, e in lontananza l’operaia Mestre maleodorante e piena di rifiuti. La Serenissima, invece, si riflette immortale e decadente tra le torbide acque della laguna, blindata per una Mostra del Cinema “aperta al dialogo”. Questa guerra a Gaza è proprio una rottura di palle, avranno pensato gli organizzatori e tutte quelle figure addette a quei ruoli definiti in inglese, con desinenza in -ing. Eh sì, una bella noia perché se parli della guerra sei un rompicoglioni, se non ne parli sei uno stronzo. Che fare? Emanuela Fanelli ha scelto con grande onestà intellettuale di non parlarne, ma ha inaugurato nell'intervista al Corriere una nuova forma di protesta, quella tutta interna: "Per Gaza sono sofferente come tutti e vorrei tanto che tutto ciò che sta accadendo al popolo palestinese smettesse. Immagino che la Biennale darà spazio a chi vuole parlarne e io sono umanamente vicina a chi prende posizione contro la guerra. Ma non ne parlerò dal palco, perché non potrei parlarne quanto questo argomento meriterebbe e non ne ho nemmeno le competenze. E perché provo imbarazzo all’idea di dire una frase o due per la vicinanza che sento, mentre indosso un abito costosissimo e gioielli costosissimi per poi fare ritorno nella mia suite all’Excelsior". Intanto una lista di 1500 attori ha firmato un appello per bandire Gal Gadot e Gerard Butler da Venezia82, i soliti rompicoglioni. Peccato per loro, poi, che l’attrice israeliana e l’attore scozzese pro Tel Aviv, proprio per evitare questo genere di problemi – ancor prima la pubblicazione della lettera – avessero già da tempo deciso di non metterci proprio piede in laguna quest’anno. A questo punto andrebbero definiti né stronzi, né rompicoglioni, ma dei dannati snob. Il regista di In the hand of Dante, Julian Schnabel, a metà tra uno stronzo e un rompicoglioni, invece, non ha voglia di parlare di Gaza dato che la sua posizione contro il massacro è chiara. A sua discolpa, dice di aver già realizzato un film, “Miral”, basato sulla sceneggiatura realizzata dalla giornalista palestinese Rula Jebreal. Come a dire, “la mia parte già l’ho fatta”. Beh, più che altro, Schnabel sembrerebbe appartenere alla categoria degli scansafatiche. Alessandro Barbera, il direttore della kermesse del cinema veneziano, rimarca che la Mostra non stia affatto ignorando la Guerra a Gaza, essendo presente tra i film The Voice of Hind Rajab, l’opera di Kaouther Ben Hania che racconta la storia vera, con la registrazione audio vera, della bambina palestinese di sei anni rimasta intrappolata in un’auto durante un conflitto a Gaza. È decisamente una storia più drammatica ed importante di chi invece rimane intrappolato per ore sotto il sole nel traffico del contro esodo post ferragosto.

Ma rimane comunque il dubbio amletico: chi diamine è Kaouther Ben Hania? Boh, che nome bizzarro, si sarà commentato con un certo imbarazzo tra i corridoi della Biennale. Ma poi tutti questi attivisti? Da dove arrivano? Si dice dai centri sociali del nord-est e dalla sezione “sette martiri” dell’Anpi di Venezia. “Sette martiri”? Ma che roba è? Pare una misteriosissima gilda di pensionati alcolizzati che si ritrovano per giocare a bocce ogni domenica. Troppo tranchant questi attivisti e militanti. Condannati per l’eternità ad inseguire un’insegna, una volta di pace – come accadde nel 2022 per l’Ucraina, quando alla Mostra del Cinema venne proiettato il video in cui Zelensky denunciò la morte di 358 bambini inermi – e l’altra di un cessate il fuoco, o di una qualsiasi Palestina libera. Eh sì, condannati ad inseguire un’insegna, paradossalmente, proprio come gli ignavi dell’antinferno dantesco, loro, i militanti. Il problema è che con il gene della militanza o ci nasci, oppure sei condannato ad essere spettatore, oppure cronista, della vita e della morte altrui, tranne che della tua. Quindi insomma, ti tocca la parte dello stronzo, capito? E se nasci militante sei un rompipalle per natura. Forse in fin dei conti le due parti si completano, e sono ciascuna indispensabile all’esistenza dell’altra. Fondamentale la loro complicità affinché dal conflitto ne emerga un racconto. E dalla dimensione del racconto non si può sfuggire. Nel racconto poi, occorre che qualcuno si prenda la colpa. Tu, spettatore, puoi scegliere chi è il buono, Israele o Hamas, oppure difendere a parole i più deboli, i civili palestinesi, che muoiono massacrati dalle bombe anche negli ospedali. Oppure la colpa puoi scegliere di prendertela tu, anche se non c’entri niente, basta sentirsi in colpa. L’importante, alla fine, è partecipare.
