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UCCIDI I RICCHI! Intervista totale a Sandrone Dazieri: “Capezzone mi vuole fuori Rizzoli? Legga più libri”. Cerno sul Leoncavallo? “Questione culturale, non di illegalità”. E sul Premio Strega: “Romanzi che parlano del tinello…”

  • di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

  • Foto: Ig Sandrone Dazieri

25 agosto 2025

UCCIDI I RICCHI! Intervista totale a Sandrone Dazieri: “Capezzone mi vuole fuori Rizzoli? Legga più libri”. Cerno sul Leoncavallo? “Questione culturale, non di illegalità”. E sul Premio Strega: “Romanzi che parlano del tinello…”
Sandrone Dazieri è controverso, diretto e chiarissimo: gli scrittori di sinistra? Non capiscono più la realtà? I politici? Pensano come gli imprenditori amici loro, le zone franche? Non sono i centri sociali come il Leoncavallo, ma i grattacieli costruiti sopra l’anima di una città. Il modello Milano? Un’occasione per le mafie. Abbiamo intervistato l’autore di “Uccidi i ricchi”, il libro che Capezzone vorrebbe cancellare da Rizzoli

Foto: Ig Sandrone Dazieri

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

“Come si chiama l’ultimo libro di Sandrone? Uccidi i ricchi. Aspetta, come si intitola? Uccidi i ricchi. E chi lo pubblica? Rizzoli. Ah molto bene. Avanti così... Rizzoli, gruppo Mondadori, pubblica Uccidi i ricchi. Sandrone, Leoncavallo, va bene. Anche oggi la lotta a all’egemonia di sinistra la facciamo domani, dai”. È Daniele Capezzone che attacca Dazieri, lo scrittore del “Leo” (il Leoncavallo, il centro sgomberato dalle forze dell’ordine dopo oltre trent’anni di attività culturale). Ma dell’egemonia Sandrone Dazieri non sa nulla, e sta sul cazzo un po’ a tutti. Alla destra perché lo considerano uno scrittore di sinistra. Alla sinistra perché in fondo ha successo. E alla sinistra di successo perché ha successo senza doversi svendere, senza rinunciare a quel modo di fare letteratura lì, potente, critico, diretto. L’ultimo libro si intitola Uccidi i ricchi (Rizzoli, 2025) appunto. È la storia di Luigi Mangione prima di Luigi Mangione, che è quello che dovrebbero fare gli scrittori. È anche una critica al modello Milano, che non c’entra niente, spiega, con l’inchiesta di queste settimane. O meglio, c’entra ma non parte da lì. L’anno zero di questa crisi non è ora, bisogna cercarlo e raccontarlo tornando indietro. Lo schema è politico, è più vasto. L’egemonia, dicevamo, Sandrone Dazieri non sa cosa sia. Ha vissuto facendo di tutto, fuorché leccando quello che c’era da leccare per garantirsi una schiera di compari, di amichetti. Ha preferito i compagni, ma anche qui – lo abbiamo detto – la storia si complica. Sì, perché, ci ricorda, il Leoncavallo non stava simpatico neanche a certa sinistra. Alle Brigate rosse, per esempio, che gli avevano promesso “il caldo del mitra sulla schiena”. Ora il direttore editoriale di Libero lo attacca e lo avvicina a quel mondo che Dazieri non solo non ha mai conosciuto ma ha sempre rifiutato. “Ci sono abituato ormai. Un paio di mesi fa dovevo fare una presentazione in provincia di Milano e mi avevano dato un teatro in cui avevano fatto una riunione i neonazisti europei. Ho scelto di non andare ed è scoppiato un bordello. Pure il sindaco mi ha attaccato”. Lo abbiamo intervistato.

"Uccidi i ricchi" di Sandrone Dazieri (Rizzoli, 2025)
"Uccidi i ricchi" di Sandrone Dazieri (Rizzoli, 2025)

Capezzone lamenta la tua presenza nelle collane di Rizzoli, soprattutto per via del tuo ultimo libro, Uccidi i ricchi, il cui titolo è preso in senso letterale evidentemente. Però è un romanzo, non un saggio. Cosa rispondi?
Intanto che dovrebbe leggere più libri. Anche i miei, prima di commentarli. Però certamente ha capito che politicamente la pensiamo in modo opposto. Non credo che pensarla in modo opposto a lui sia un buon motivo per essere cacciato da tutte le case editrici del regno.

Per Capezzone sei parte della cosiddetta "egemonia culturale" della sinistra. Ti senti parte di un’egemonia?
Ma per carità. Ovviamente no e il motivo è semplice. Io non faccio parte di niente. Né a destra né a sinistra. Non vado alle cene importanti, non mi invitano ai Festival solo per quelli importanti, e in generale se noti non è che quando vengo attaccato ci siano schiere di letterati in mia difesa. Anzi, stanno ben zitti. Il mio problema è essere controverso, perché dico quello che penso. Sono totalmente onesto, poi magari mi sbaglio, ma non scrivo ciò che mi conviene. Se fossi stato molto più diplomatico avrei avuto qualche incarico in qualche fiera del libro, chissà.

Tu parli di temi fondamentali e di attualità ma attraverso la letteratura di genere. Potevi scegliere dei generi più impegnati.
Io penso che la narrativa di genere, se fatta bene, racconti il presente. Il giallo, soprattutto, che ha come caratteristica intrinseca l’indagine, ti permette di dire qualcosa del mondo in cui viviamo. Dare un punto di vista sul presente è il compito etico di uno scrittore, perché il presente è talmente complesso e scivoloso che è difficile da comprendere. Naturalmente anche questa è una scelta di campo. È ovvio che se fai un giallo che non parla di nulla ma è molto divertente, avrai un pubblico più ampio. Ma io voglio che i miei libri dicano qualcosa che vada oltre alla storia, che è comunque importante.

Al Leoncavallo di storie ne sono girate. Tu hai definito questo luogo il “centro della controcultura milanese”. È la controcultura a essere attaccata oggi?
Sai perché sono finito su tutti i giornali? Perché nessuno di quelli che potrebbero prendere posizione lo fa. Sono pochissimi gli artisti che si sono esposti. Il risultato è che tutti attaccano me. Ma essendo un cane sciolto a nessuno importa. Si difendono le corporazioni. La controcultura è il contrario. Per questo nessuno difende il Leoncavallo.

A uno dei tuoi personaggi, Sermonti, fai dire una battuta che può essere un teorema generale: “Quando un uomo fattura come un piccolo Stato entra naturalmente nella nostra sfera di interessi”. Questo vale anche per gli scrittori? I ricchi dovrebbero interessare anche gli scrittori?
Dovrebbero. Se tu vuoi parlare del presente devi capire come è mutato. La nostra cultura fa fatica a distaccarsi dal Novecento, sia dal punto di vista politico e culturale, sia dal punto di vista sociale. Ma il nostro mondo non è più quello del secolo scorso. Le dinamiche di potere, l’intreccio tra economia, finanza e potere, non sono gli stessi di un tempo. In questo momento il potere politico e quello economico sono indistinguibili. Il "modello Milano" è un problema perché la città viene disegnata sulla fantasia di un gruppo, di un ceto, che in qualche modo si riconosce tra di loro. Se vieni dallo stesso ambiente del costruttore, balli sugli stessi balconi degli imprenditori, è ovvio che come politico tenderai ad avere una visione politica simile a quella dell’imprenditore. Ma Milano è diventata un ottimo esempio di investimento finanziario, di speculazione edilizia, ma è invivibile per le persone normali. La gente se ne va, i nuovi cittadini hanno i soldi. Vengono costruiti solo palazzi enormi con dentro centinaia di Airbnb. È una visione della città che non tiene conto della sua anima. E l’anima è fatta di comunità, che oggi viene disgregata. Per questo dei luoghi come i centri sociali hanno una funzione di ricomposizione di questa anima. Ti puoi ritrovare, puoi discutere, puoi immaginare. E questo dà fastidio.

Tommaso Cerno, a proposito delle minacce anarchiche che racconta di aver ricevuto, scrive: “Ricevere una lettera di minacce di stampo anarchico contro Il Tempo e il nostro editore nel giorno in cui dopo 31 anni è stato finalmente sgomberato il Leoncavallo, centro sociale di Milano simbolo dell'illegalità perpetua a spese dei cittadini, non solo non ci fa paura ma è un segno che battersi per la libertà e la democrazia ti farà anche fare dei nemici ma sono la prova che sei sulla strada giusta”. Tu quegli spazi li conosci. Ti piace questa associazione di idee tra minaccia anonima a un giornale e la fine dell’esperienza del centro sociale?
Possono collegarle a quel che gli pare, ma la questione è un’altra. Perché devono mettere la lente su una sola parte della questione, e cioè quella della legalità? Parliamoci chiaro, il Leoncavallo saranno almeno trent’anni che non fa manifestazioni violente o cose del genere, per cui è ridicolo parlarne quando si racconta di minacce o altro. Ma anche la questione dell’illegalità va inquadrata. Parlare della disobbedienza civile e non guardare altro è allucinante. Per quindici anni il Leoncavallo ha cercato di regolarizzarsi. Ha aperto delle discussioni con tutte le istituzioni, venendo tacciato anche di non essere più rivoluzionario, proprio perché si voleva andare avanti e progredire. Perché tutto questo non viene raccontato? Per loro qualsiasi cosa non sia una birreria o un circolo dell’estrema destra è un problema, qualcosa di strano. Cosa vogliono questi giovani? Perché non vanno a lavorare? Per non parlare di quello che si può fare in un posto come il Leoncavallo per il problema della microcriminalità.

Cioè?
A Milano c’è un problema di violenza giovanile che riguarda ragazzi privi di un futuro. Ora, quelli che pensano che la repressione sia l’unica possibilità, non si rendono conto che nei quartieri più difficili avrebbero bisogno di cento Leoncavallo, centri di aggregazione, dove questi ragazzi possono mettere a frutto le loro capacità insieme ad altre persone. I centri sociali danno speranza quando l’alternativa che dà lo Stato è o la galera o andarsene dall’Italia.

Il blitz delle forze dell'ordine per sgomberare il Leoncavallo a Milano
Il blitz delle forze dell'ordine per sgomberare il Leoncavallo a Milano Ansa

Nessuno ne parla come stai facendo tu.
I ricchi non ne parlano. Se tu sei un direttore di giornale, un direttore editoriale, un politico, non hai problemi di soldi e quindi vivi un distacco abissale con la realtà. Se mandi i tuoi figli a studiare in buone scuole o all’estero, non riesci a capire come vive uno che ha uno stipendio da fame, tre figli e una moglie che non lavora. Non ti rendi conto di cosa vuol dire avere figli e non sapere cosa fargli fare dopo la scuola. Per loro è tutto crimine, tutti merda. Per loro ci sono i bravi cittadini, che producono e stanno zitti, poi ci sono loro che ne godono i frutti. E tutti gli altri devono essere tacitati. Sto parlando della destra, che ce l’ha nel Dna, ma anche della sinistra, che non riesce più a capire.

Però la sinistra, almeno su alcuni temi, timidamente (democristianamente?) ancora ci prova: vedi Gaza, ma anche in Italia con l’immigrazione.
Per cambiare le cose devi essere controverso. La letteratura deve essere sovversiva. Devi immaginare mondi, devi immaginare possibilità. Questo vale ancora di più in politica. È ovvio che la sinistra istituzionale non ha il potere e forse la voglia di intervenire sullo stato di cose, perché di base non mette in discussione il modello produttivo. Nessuno mette in discussione il modello Milano. Magari ne mette in discussione gli eccessi, ma mai Milano. E infatti comanda la sinistra in questa città.

Va bene la sinistra parlamentare, ma gli scrittori di sinistra?
Quando abbiamo iniziato a scrivere gialli negli anni Novanta, la mia generazione (Lucarelli, Pinketts, De Cataldo, Carlotto e altri) credeva che si dovessero usare i metodi della narrativa angloamericana per raccontare il nostro Paese, perché la letteratura non parlava più del presente, era ombelicale. Dovevamo rompere lo status quo. E ci fu un’enorme ricaduta. Il giallo divenne un genere popolarissimo in Italia anche grazie a scrittori italiani, prima erano tutti stranieri. Questo invito a parlare di temi sociali è poi passato, a partire dal giallo, alla letteratura alta, dentro al Premio Strega per capirci. Stacco. Sono passati trentacinque anni. Oggi la maggior parte dei giallisti racconta favole rassicuranti. Oggi la letteratura, quella che va ai premi, è tornata a parlare del tinello, è il romanzo borghese: si parla di divorzi e famiglie. Ed è un problema. Penso a Resistere non serve a nulla di Walter Siti, in cui si raccontava di un colletto bianco della ‘ndrangheta che veniva a Milano per riciclare i soldi. E Siti lo faceva con una cognizione di causa pazzesca, ma all’interno di un romanzo. Ecco, questi libri sono fondamentali, perché ti spiegavano che la mafia non era più la coppola come nei film, ma erano i boss che mandavano i figli a studiare a Londra e poi li facevano tornare per occuparsi del riciclaggio di denaro. E guarda caso vanno a Milano. È ovvio che una città come Milano è un centro di investimento per le mafie, perché in una metropoli così guadagnerai sempre. Allora il problema della legalità non c’entra niente con un posto, che era un cesso, che viene occupato e di cui non è fregato niente a nessuno finché la destinazione d’uso non è cambiata e può essere sfruttato per costruire grattacieli.

Ma perché nessuno parla?
Immagina di essere uno scrittore di moda, invitato in tv da Fazio, e pensa di provare a difendere un centro sociale. Ti diranno che ti schieri con l’illegalità, ti rimprovereranno con le solite frasi fatte. Ecco perché gli scrittori stanno zitti e preferiscono parlare di quando la loro nonna incontrò Pasolini. Per loro fare politica di sinistra è quello ormai.

Si scrivono romanzi borghesi, ma anche romanzi true crime. La cronaca nera è diventata il genere giornalistico più popolare di tutti. Ma è anche un’arma di distrazione di massa?
No, se fatta bene. A sangue freddo di Truman Capote non è certo un’arma di distrazione di massa. Se io parlo di un operaio caduto in cantiere e vado a capire com’è morto, sto scrivendo qualcosa di pazzesco. Se invece il true crime è la costruzione di uno show in cui si scontrano innocentisti e colpevolisti, allora diventa qualcosa di vergognoso in cui a perdere sono le vittime.

Sandrone Dazieri
Sandrone Dazieri

Dici che non puoi dire pubblicamente di stare dalla parte di un centro sociale senza attirare indignazione, figuriamoci provare a parlare degli omicidi politici, o di violenza in generale. Uno scrittore di gialli come te come li racconterebbe?
Io penso che lo scopo di uno scrittore sia quello di raccontare perché qualcuno ammazza. Nei miei romanzi c’è la caccia all’assassino, ovvio. Ma il punto centrale è riflettere su come nasce il male. Io sono un pacifista, la mia posizione riguardo alle guerre è quella di Gino Strada, non esistono conflitti armati giusti. Ma tu devi raccontare perché si arriva a una guerra, perché qualcuno mette una bomba, perché qualcuno ammazza. Negli anni Settanta e Ottanta questo ragionamento si faceva. Oggi, se provi a dare un po’ di contesto, a parlare di tutto quello che succedeva realmente, allora ti etichettano subito come filo-brigatista, filoterrorista e così via.

È successo anche a te?
Sì, quando le Brigate rosse a quelli come me volevano sparare, proprio perché eravamo contro la lotta armata. Io ricordo che le Br fecero un comunicato contro il Leoncavallo, perché stavamo tradendo la lotta di classe. E c’era una battuta del tipo: “Vi faremo sentire il caldo del mitra sulla schiena”.

In Italia c’è un problema fascismo?
Che esistano frange neofasciste e che ci sia un pensiero di destra che si è evoluto a partire dal fascismo è evidente. Ma io non credo che quello che abbiamo oggi sia il fascismo degli Anni Trenta. Lascia stare Casapound, non sono loro il problema. Il fatto di non avere delle categorie di analisi attuali per il 2025 dimostra che non sappiamo più capire cosa sta succedendo. Certo, quello che sta accadendo è certamente una deriva autoritaria. Partirei da questo: il fenomeno a cui stiamo assistendo in Italia, quello più prepotente, è la chiusura di spazi. Il fatto stesso che siano aumentate le pene per azioni specifiche, come i blocchi stradali di Ultima generazione o il vandalismo con la vernice lavabile su una statua, ci fa capire molto.

Che poi questa svolta repressiva spesso riguarda questioni simboliche. Vedi il caso dei rave.
Ma certo. Per la destra esistono delle zone franche, come anche il Leoncavallo, che vanno attaccate. Ma le zone franche sono quelle dove si costruiscono grattacieli con il consenso di tutti.

A proposito di questo, Jonathan Lethem ha pubblicato quest’anno Brooklyn Crime Novel, un libro in cui se la prende anche con la sinistra “bene”, che si è riappropriata nel tempo proprio di quei quartieri poveri che ha cercato di rendere simili ai quartieri ricchi, senza comprenderne la ferita, la storia, le contraddizioni.
Anche la sinistra sa come va il mondo. Se sai che dopo un certo percorso potresti finire in una Fondazione o qualcosa di simile, capisci che la tua vita potrebbe essere sistemata. E a quel punto fai fatica a vedere la realtà che accade. Questo succede per tutti gli intellettuali e i politici che vivono in un altro mondo. Bisogna tornare a calpestare i marciapiedi. Bisogna tornare a vivere sulla terra.

Si parla molto invece delle curve nel calcio, che sembrano dare fastidio al sistema, anche se sono sempre più vicine al mondo di destra. Perché l’aggregazione, quella davvero offensiva per lo Stato, non è più di sinistra?
Non seguo il calcio, so quello che mi raccontavano degli amici che hanno frequentato quel mondo. Ma direi che il punto centrale è che in queste realtà l’aggregazione si basa su obiettivi condivisi semplici: la mia squadra che deve vincere. Picchiare i tifosi delle altre squadre e magari qualche volta la polizia. Ma sono discorsi semplici appunto, non sono discorsi politici. Poi tu puoi avere un impegno personale, anche militante, ma difficilmente si esprime in termini di gruppo organizzato. La curva è innocua. Non porterà un cambiamento sociale.

Nel tuo romanzo scrivi: “È la sua pistola [di Colomba, ndr], il suo peso le è familiare, la fa sentire male e bene allo stesso tempo”. Vale lo stesso per te con la penna?
Non ho mai sparato a nessuno, non lo so. Ma scrivere è sicuramente complicato. Quando lo faccio mi chiedo sempre se abbia senso o meno. Questa è la parte amara. È come se mi sentissi obbligato a trovare un senso a quello che faccio che vada oltre il piacere dello scrivere. Questo mi permette anche di mutare continuamente, di evolvermi in un certo senso. Ma la pistola è un’altra cosa. La penna può dar fastidio, la pistola ti fa malissimo.

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