Il sentimento peggiore è la vergogna perché ha un suo contenuto specifico. Quante volte ci è capitato di essere tristi per nulla – di dire proprio “Non so perché sono triste” – o di essere arrabbiati con il mondo. Ma non ci si può vergognare senza avere in testa esattamente ciò di cui ci si vergogna. È per paura della vergogna che il cervello frena, oppone resistenza. Anche su un genocidio. Su quanto sia difficile cambiare idea.
Dov Waxman è un esperto di conflitto israelo-palestinese e studi sul genocidio. Per ventidue mesi ha rifiutato di credere che a Gaza fosse in corso un genocidio. Oggi ha cambiato idea, nonostante non consideri l’intento genocidario come il principale motivo delle azioni di Israele. Lui, un esperto di rilievo internazionale, che ha studiato e pubblicato libri sulla storia di quei territori per le più importanti case editrici al mondo, ha avuto bisogno di due anni per cambiare idea. È solo l’ultimo degli esperti che ora si schiera contro Israele, e non è l’unico che lo sta facendo solo adesso.
Fin dall'inizio non ho mostrato alcuna simpatia per Hamas. Ho anzi espresso un sostegno fortissimo e solidissimo verso Israele. Di recente ho scritto che l’unica speranza per Israele è abbandonare la strada suicidiaria intrapresa una trentina di anni fa. Questa è l’opinione di David Grossman, ma anche di Amos Oz. Esiste un sionismo che non è “bibismo”, come scrive Jaques Attali. Un sionismo che non è suprematismo. Però a distanza di due anni mi sono guardato indietro. Mi son chiesto: ma sono un complice, come dicono alcuni, del genocidio? Faccio apologia del genocidio?
Per farlo avrei dovuto negare non solo il genocidio, ma anche i crimini in corso. Cosa che, tuttavia, non ho mai fatto. L’11 ottobre 2023 scrivevo: “Entrare nel merito significa fare il lavoro degli altri, un lavoro ben poco utile in questo momento. Di fronte a dei bambini decapitati prendere le parti di qualcuno e inneggiare a quella violenza non può che essere una sconfitta. Anche se, e questo è un fatto, le morti civili tra i palestinesi sono state nel corso degli anni decisamente di più. Anche se, cioè, i palestinesi non hanno potuto fare altro che appoggiarsi a un’organizzazione estremista e terrorista come Hamas, come ritiene qualcuno. Gioire, esultare, mostrare i video in piazza da telefono, mentre l’unica espressione sostanziale della rivolta palestinese è la serie di uccisioni, famiglie bruciate vive, stupri e raid sui civili di queste ore, significa oltrepassare quel limite che gli occidentali dovrebbero tenere in considerazione”.
L’11 dicembre 2023, invece: “Più la guerra va avanti più il numero di morti ti immobilizza. Ti impalla il cervello. Qualsiasi siano le ragioni di una parte (Israele), quella cifra a tre zeri fa paura, perché non è dettata solo dalla strategia ma anche dalla rabbia e la paura. Ci siamo abituati a immaginare Israele come uno Stato protofascista, una specie di imbattibile e insensibile mostro, figlio dell’Occidente, fatto di acciaio e ferocia. Ma dopo il 7 ottobre Israele ha soprattutto paura”.
Agli occhi di molti tutto questo è insufficiente e rimarrà. E io non so, francamente, se la vergogna sia almeno in parte indotta dal loro atteggiamento radicale, polarizzante, colpevolizzante, e se dunque debba, almeno in parte, resistere all’imbarazzo per essermi sbagliato.

Di recente ho ripreso in mano un libro di Bernard Brunetau, si intitola Il secolo dei genocidi, il riferimento è al XX secolo. Prima di raccontare i singoli casi storici, Brunetau fornisce la miglior spiegazione che abbia letto finora riguardo alla complessità di individuare le caratteristiche specifiche di questo crimine. Tuttavia, rileggendo quelle pagine, soprattutto tra venti e trenta, ho fatto davvero fatica a non avvicinare questo termine alla carneficina in corso a Gaza.
Qui sono iniziati i problemi. Brunetau, l’autore del libro, nega con chiarezza che ciò che sta avvenendo a Gaza rientri nella categoria di genocidio. Allora mi chiedo: cosa non ho capito del libro? O cosa mi sfugge? O, ancora, cosa mi manca per comprendere a pieno quel che sta accadendo? Insieme a lui altri miei classici riferimenti frenano ciò che inizio ad accettare, o che non so più nascondere a me stesso. Per esempio Deborah Lipstadt, che ha combattuto e vinto lo storico processo contro il negazionista dell’Olocausto David Irving. Anche lei non crede che si tratti di genocidio. Come posso io, in virtù di quanto ho imparato da Lipstadt o da Brunetau, dar loro torto?
Passa qualche settimana. La possibilità che Israele annetta una parte della Cisgiordania (l’Area E1, che spezza la zona settentrionale e quella meridionale) è uno dei passi più tragici di questa guerra, perché rischia di chiudere una possibilità fondamentale, quella della creazione dello Stato palestinese (che avrebbe compreso, probabilmente, proprio la Cisgiordania).
Israele, che finora aveva sempre negato, ratifica una volta per tutte il piano di pulizia etnica in Cisgiordania. Non si cura più di salvare le apparenze. È slegato da qualsiasi vincolo morale, lo sa. E lo sa il suo principale alleato, Donald Trump. Qualche dichiarazione, forse, fa pensare ancora che il problema, per il governo israeliano, sia il terrorismo. Ma le giustificazioni di Netanyahu suonano irrevocabilmente come quel “denazificare l’Ucraina” pronunciato da Putin.
Anche Netanyahu, se fosse coerente, saprebbe che nulla, in questa tragedia, ha più a che fare con il terrorismo, ammesso che sia mai stato così negli ultimi due anni. In un libro pubblicato nel 1986 dal Jonathan Institute (l’organizzazione dedicata alla memoria del fratello di Bibi, morto durante l'Operazione Entebbe) e curato proprio dall’attuale primo ministro israeliano, ai tempi ambasciatore alle Nazioni Unite, Netanyahu tenta di dare una definizione di terrorismo. Inizia con il sostenere che “non si tratta di un fenomeno sporadico, originato dalla miseria e dalla frustrazione sociale. Ha le sue radici nelle ambizioni politiche e nei disegni espansionistici degli Stati e dei gruppi che li servono”. Domanda: come definire il rapporto tra coloni israeliani in Cisgiordania e Stato di Israele?
Ricorda poi la definizione adottata a Gerusalemme nel 1979: “Il terrorismo è l’assassinio deliberato e sistematico che paralizza e minaccia l’innocente per seminare terrore a fini politici”. Ma cos’è, quello di Israele, se non un tentativo deliberato e sistematico di paralizzare – impedendo l’ingresso di aiuti umanitari, distruggendo la quasi totalità degli edifici, comprese scuole e ospedali – e minacciare l’innocente per seminare terrore a fini politici, e cioè per spingere i civili palestinesi a fuggire temendo per la loro stessa esistenza?
A Gaza non può entrare nessuno, ma di recente uno storico è riuscito a ottenere i permessi, ha visitato i luoghi del conflitto e ha scritto un reportage. Jean-Pierre Filiu scrive cosa ha visto arrivando di notte nella Striscia: “Un paesaggio dantesco di cui si distinguono solo frammenti, rapidamente inghiottiti dalla fitta oscurità”. I particolari sono terribili ed evidenti, ma è l’uso di questa metafora ad avermi colpito. Perché i paesaggi danteschi a cui fa riferimento sono chiaramente quelli dell’Inferno. E sono sempre paesaggi rovesciati, a testa in giù, sono l’anti-mondo, l’anti-vita. Dunque a Gaza è questo che Filiu ha visto: l’anti-mondo, l’anti-vita. È questo abisso a essere ormai insostenibile.

A questo si contrappone il “paradiso virtuale”, come definì una volta la descrizione dantesca, impalpabile e luminosa, Umberto Eco, della comunicazione digitale in Italia e in Occidente. Paradiso per tutti, difensori e detrattori di Israele, pro-Pal e sionisti. Nulla di ciò che diciamo ha il peso che vorremmo e questo, in fin dei conti, ci torna utile. È in questo contesto che ogni forma di reticenza intellettuale, di freno verso la verità, acquista il massimo della sua potenza: una potenza attiva, quella cioè di inibire la vergogna, di rubarti il tempo, di non concedertene affatto. Ragioni su tutto poiché il tuo ragionare è, dopotutto, superfluo. Per chi muore, per chi lotta fuori dai social, per chi resiste.
È in questo contesto che un’altra questione mi ha avvicinato alla verità sul genocidio in corso. L’attacco indiscriminato verso Francesca Albanese, criticata principalmente per un report pubblicato in qualità di relatrice delle Nazioni Unite. Ho visto ciò che si stava tentando di buttare giù. L’autrice di un’inchiesta dal valore giornalistico fondamentale, non l’inchiesta. Nulla è stato detto, nelle varie settimane successive, contro ciò che lei ha descritto come l’economia del genocidio. Questo dire nulla e continuare ad attaccarla mi è sembrato un segno evidente, anche se laterale, della complicità con la propaganda genocida, che è poi un’altra economia, fatta di capitale intellettuale, di risorse ed energie culturali spese a fin di male.
Il passaggio è compiuto. La vergogna ha vinto sull’orgoglio intellettuale e sulla tossicodipendenza mediatica (rissa, polarizzazione, estremismo). E vale la pena beneficiare di questo stato di malessere dovuto all’imbarazzo. Che sia da lezione, che sia un modo per non mentire a se stessi o negare ciò che si è sostenuto. Anzi, è sacrosanto verbalizzarlo, scriverne. A Gaza è in corso un genocidio. Il colpevole è Israele. La tragedia non è finita, possiamo ancora fare qualcosa. E anche io, finalmente, lo vedo.
