“We will dance again”. Balleremo ancora.
Non è balliamo, non è abbiamo ballato. È balleremo ancora. La differenza tra la democrazia e i regimi è che in democrazia sai di poter guardare al futuro. Lo vedi lì, oltre la vittoria. E la vittoria arriva. Mia Schem è stata liberata dopo cinquantacinque giorni di prigionia. Hamas l’ha rapita durante un rave, mentre quasi quattrocento persone sono state trucidate. Aveva il braccio spezzato, glielo ha curato un veterinario. Torna dopo oltre un mese a casa insieme a pochi altri. E si tatua questa frase: “We will dance again”. Questa frase e una data: 7.10.2023. Sette ottobre duemilaventitrè. Il giorno più drammatico dell’intera storia dello Stato di Israele e, per il popolo ebraico, la strage più grande dai tempi dell’Olocausto.
Più la guerra va avanti più il numero di morti ti immobilizza. Ti impalla il cervello. Qualsiasi siano le ragioni di una parte (Israele), quella cifra a tre zeri fa paura, perché non è dettata solo dalla strategia ma anche la rabbia e la paura. Ci siamo abituati a immaginare Israele come uno Stato protofascista, una specie di imbattibile e insensibile mostro, figlio dell’Occidente, fatto di acciaio e ferocia. Ma dopo il 7 ottobre Israele ha paura. Sapeva da un anno del piano di Hamas, ne dà notizia prima il New York Times, poi tutti quei giornali che titolano “Israele sapeva”. Sapeva, sì, lo dimostrano quei documenti arrivati alla stampa. Ma non se lo aspettavano lo stesso. Non credevano, cioè, fosse possibile in questo momento, con quelle forze. Ora lo sanno, Hamas e chi è dietro di lui sanno fare la guerra. Non sanno proseguirla, ma sanno iniziarla. Perché la guerra ricomincia il 7 ottobre. I filopalestinesi sono meno propensi a restare zitti. Ogni giorno che passa diventano sempre più antisionisti e, poi, antisemiti. Credono che il problema, in questa storia, sia l’unico attore “democratico”, cioè l’unica società in grado di dare un futuro. Un futuro anche alle donne israeliane o palestinesi. Perché dall’altra parte ci sono gli stupratori, quelli che le donne rapite le hanno stuprate prima e dopo averle uccise. I “figli sani del patriarcato” che in tanti non riescono a definire “terroristi”, perché non ce la fanno a stare dalla parte dei valori occidentali, preferiscono il relativismo. Amare gli inamabili, chi moralmente, agli occhi di chi sa cosa sia la libertà, resta involuto.
Intanto che noi parliamo, chi torna dopo quasi due mesi di prigionia a casa si tatua dei numeri e delle parole che non possono non far tornare in mente gli aghi nazisti. Ma oggi, chi decide che è possibile non dimenticare, le vittime di Hamas sopravvissute, non meno vittime dei morti, e vuole tornare a ballare, ribalta l’incubo di Auschwitz. Chi ha un’idea della storia ebraica sa che non si può parlare di Genocidio palestinese. È un insulto alla memoria storica e alla memoria simbolica non solo di un popolo, ma anche nostra. Intanto una bellissima ragazza, Mia Schem, usa un ago e l’inchiostro, i suoi strumenti, le sue armi (è una tatuatrice) e cancella con un gesto incredibilmente piccolo ogni tentativo di immaginare che lei, come quegli ostaggi, siano stati anche solo per un attimo di proprietà dei terroristi. Mia Schem sta dicendo che quella pelle è sua, sua è la libertà, e la vita negata ai suoi amici o agli sconosciuti che ballavano accanto a lei vive sulla sua pelle non per scelta dei nuovi nazisti, ma per scelta delle vittime.
Ecco come si può usare l’inchiostro, ecco come si possono usare le parole. Chi le spreca dovrebbe imparare da Mia Schem. Dai sopravvissuti.