L'11 settembre è un evento irripetibile perché non si può squarciare un velo già strappato, dilaniato, consumato. Ventidue anni fa l’Occidente ha capito che il nemico poteva entrargli in casa. A distanza di poco più di mezzo secolo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e a dodici anni dalla Caduta del muro di Berlino, qualcuno intuì che il pericolo, tuttavia, albergava già all’interno dell’Europa. E ora anche degli Stati Uniti. Chi firmò editoriali tanto lucidi e profetici venne fortemente criticato al punto da diventare una facile sponda polemica per tutti coloro che definiscono fascismo qualsiasi opinione non sia coerente con la propria. Tanto che un’amica di Pier Paolo Pasolini come Oriana Fallaci, che alla morte del poeta chiamerà il Corriere della Sera per dire a un giovane Padellaro che PPP era “stato ucciso dai fascisti; dai fascisti, devi scriverlo”, oggi viene ricordata come una nemica della democrazia, in Italia incarnata da schiere di nuove generazioni cresciute a New York Times (degli ultimi anni) e Barack Obama (non è un caso che il PD abbia come segretario di partito una ragazza formatasi tra i banchetti delle campagne elettorali Dem in America, Elly Schlein).
La rabbia e l’orgoglio sarà un pianto senza lacrime, come lo definirà lei stessa, quella giornalista assoluta che si ritirò in esilio volontario a New York, “zitta come un lupo sdegnoso”. Che tacque fin quando non avvertì “il puzzo della morte dalle finestre”. Davvero si può recriminare a un pianto, a un’agonia torrenziale, qualche errore? C’è chi lo ha fatto e lo continua a fare. Ma sì perde il punto. Che un 11 settembre diverso, una terza Pearl Harbor, è possibile, ma stavolta il nemico arriverà dall’interno, come precipitato finale di una guerra civile che avanza per logoramento di una delle parti, quella filoccidentale. Di questo nuovo attacco al cuore della nostra civiltà sono responsabili il relativismo e gli alfieri – o sarebbe meglio dire i fanti – di quella sinistra che ha la forza di attaccare i propri fratelli e le proprie sorelle, cioè le persone a tiro, i propri pari.
Il dolore
Domenica 20 aprile 2008. Il papa che quattro anni più tardi avrebbe rinunciato al “ministero di Vescovo di Roma” arriva al Ground Zero e prega. Benedetto XVI chiede “luce e pace eterna a tutti coloro che sono morti in questo luogo – i primi soccorritori: i nostri vigili del fuoco, agenti di polizia, addetti ai servizi di emergenza e personale della Capitaneria di Porto, insieme a tutti gli uomini e le donne innocenti, vittime di questa tragedia solo perché il loro lavoro e il loro servizio li ha portati qui l’11 settembre 2001”. Il dolore viene espresso dal papa per la prima volta proprio in quest’occasione, cronologicamente a cavallo tra la pubblicazione, l’anno precedente, dell’enciclica Spe salvi e, l’anno successivo, di Caritas in veritate. In una tappa intermedia che può idealmente collegare due dei documenti più importanti per la cristianità contemporanea: da un lato la necessità di ampliare la propria concezione di speranza orientandola al divino e non limitandola al progresso tecnologico e scientifico, dall’altro l’importanza della verità, la carità nella verità.
Speranza e verità si erano imposte all’indomani dell'11 settembre e, a distanza di sette anni, restavano rilevanti per comprendere quanto accaduto quel giorno. Lo sono ancora. La speranza, soprattutto di una salvezza ben al di là del nostro tempo biologico, è il primo insegnamento cristiano. Arriva con il battesimo, con l’imitazione di Gesù, cioè del Dio che opera scendendo all’inferno, pronto a patire come l’ultimo degli uomini. Dunque la speranza è imparare a convivere con la certezza di quel dolore e di quelle morti senza negare né l’uno né le altre, superando senza evitare il trauma. La verità è un obbligo morale, è generatrice di possibilità e in particolare di quella che potrebbe evitare altre catastrofi simili nel cuore della nostra civiltà. Ecco perché è importante parlarne. Il dolore porta alla verità, tanto quanto cercare la verità, scrive C. S. Lewis, porta a trovare conforto. Dunque comprendere e convivere con quel dolore non può che implicare dire la verità. Anche quando la verità fa paura, è dolorosa, ci riguarda. Anche quando dire la verità significa riconoscere un pericolo imminente. Un nuovo 11 settembre.
La rabbia
Oriana Fallaci aveva ragione: “La barba ricresce e il burkah si rimette”. In Afghanistan, dove i talebani hanno ripreso il potere, regge da due anni l’apartheid di genere e le donne tornano a valere “quanto un cammello”. Aveva ragione, perché l’anestesia totale dell’intellighenzia ci ha permesso di tollerare una cultura mortifera. Certo non tutto, a distanza di vent’anni, può essere salvato. La cultura islamica è profonda e articolata. Il debito a partire dal Medioevo che abbiamo nei confronti del Medio Oriente è innegabile. Non sono solo numeri arabi. Ma traduzioni, Aristotele, Platone. Una cultura che per una buona parte della sua storia è stata considerata più tollerante della nostra. Una cultura che ha diritto al suo spazio nelle forme ed entro i limiti della dignità umana. Ma forse quello spazio non è in Europa e su questo, in parte, Fallaci aveva ragione.
Il problema non è chi fugge dalla guerra, vale la pena di ricordarlo. L’essenzialismo propagandistico di tutte le parti (chi li crede tutti terroristi o incivili, chi li crede tutti profughi nazzareni) è frutto di un pensiero involuto. Il problema è il confronto tra due mondi laddove uno dei due si presenta con forza e veemenza tra i suoi sostenitori e l’altro è costantemente messo in discussione da chi predica il pluralismo ma ai danni di una delle tante alternative, la propria. Non potrà mai essere una vera convivenza senza una franca fermezza nei propri valori e nella propria cultura. La pretesa di annullare la nostra Storia in nome della storia altrui è una forma di colonialismo al contrario, praticamente sempre da gruppi occidentali e aggressivi, ma senza visione.
La pedanteria
Una dimostrazione di questa debolezza delle nostre convinzioni la diedero all’indomani della pubblicazione dell’articolo di Oriana Fallaci due pesi massimi dell’ambiente di sinistra: Dacia Maraini e Tiziano Terzani. La prima vuole difendere gli innocenti, i più, a fronte di una Fallaci irata e cieca (“non puoi non vedere”, in Italia “non si è vista…”). Il secondo vuole smontare i sentimenti di vendetta della sua corregionale ma aggiunge: “Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato”. E poi: “Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire”. Capire a spese dei morti, è chiaro.
A rispondere in modo pratico è stato un teorico della democrazia, forse il più importante scienziato politico dell’Italia contemporanea, Giovanni Sartori: “Oggi i confini tra guerra e pace si sono annebbiati, e oggi nulla ferma più niente. La polverizzazione delle due torri di Manhattan prefigura un orripilante scenario di 'atomiche di pace' (per così riassumere) che ci possono colpire ogni giorno e che massacrano alla cieca. Dunque, da un mese io mi sto rifacendo - bene o male - una testa nuova che cerca di capire e di fronteggiare una nuovissima (nonché orribilissima) realtà. Invece per la Maraini e Terzani è quasi come se non fosse successo niente di nuovo. In entrambi ripassa il déjà vu di sempre, ripassano i ritornelli di sempre. Saranno anche giovani, certo più giovani in anni di me; ma per il criterio di Umberto Eco la loro testa è già vecchia assai”. Con una formula sintetica ed esplicativa, Sartori bocciò i due intellettuali: “Come ho già spiegato su questo giornale [il Corriere della Sera, ndr], chi capisce così non capisce nulla”.
Il problema di questo fronte, il “fronte per capire”, è la vigliacca pedanteria che sottintende. È chiaro che tutto vada compreso nel contesto più ampio delle dinamiche di lunga e media durata. Ma non in quel momento, nel tempo dei sermoni. Perché Oriana Fallaci licenzierà, sue le parole, una predica. Dacia Maraini fa parte delle “persone di buon senso”, che non direbbero mai quello che ha detto in quei giorni e gli anni successivi Oriana Fallaci, ma avrebbe voluto far parte degli storici, di chi scrive al riparo dagli eventi di cui parla. Forse si sentivano così, al riparo. E allora, ancora una volta, aveva ragione Fallaci a definirli ciechi, miopi. La cieca, la malata non era lei, ma la visione di questi intellettuali, moribonda, tollerante dove non serve e intollerante con chi meritava rispetto (anche per la sua storia, quella di una reporter di guerra, diversa dalla loro).
L'11 settembre di sinistra
Una frase di Oriana Fallaci dice tutto. Parlando della grande promessa di una nuova offensiva nel cuore dell’Occidente – “che temo più dell’antrace, della peste bubbonica, della lebbra, del gas nervino” – Fallaci ci mise in guardia da un attacco “ai monumenti antichi, alle opere d’arte, ai tesori della nostra Storia e della nostra cultura”. Ma oggi è proprio la sinistra le cui azioni sono orientate dalla cosiddetta Cancel Culture ad attaccare direttamente monumenti antichi, opere d’arte e tesori della nostra Storia. Quella stessa sinistra che depone docenti arrivati alla fine di un percorso accademico a cui loro stessi anelano e che vorrebbero sostituire. Quella stessa sinistra che corregge opere letterarie e inserisce degli alert prima dei lungometraggi Disney. Quella stessa sinistra che ha sdoganato in più di un’occasione l’orwelliano thoughtcrime. Quella sinistra non ha pregato per la pace e la fine dell’odio, ma ha preferito portare la guerra in casa. Se non i valori di quell’Islam che si fece esplodere l'11 settembre, quelle stesse intenzioni distruttrici. In nome di una correzione della storia e dell’importanza di una punizione, non puniscono più se non loro stessi. O meglio, la parte migliore di loro, quella che non hanno saputo diventare o sostenere. Quella che li ha resi civili nonostante le contraddizioni (è inutile ripetere delle bombe americane o delle guerre francesi, italiane, tedesche, inglesi). Civili nonostante l’inciviltà, in un percorso che è ancora lungo, ma non così lungo da farci credere che sia trascurabile il danno al quale questa nuova cultura inquisitoria sta portando.
Così ci avviciniamo a un nuovo 11 settembre. I kamikaze sono quegli intellettuali che in nome dell’anticolonialismo e di teorie antiscientifiche si lanciano contro le statue di Hume, di Cristoforo Colombo, contro gli scritti di Kipling. Incapaci di pregare e di denunciare, nei momenti opportuni, perché troppo presi a costruire finte categorie e nuovi valori. Finendo per parcellizzare la morale, passata al setaccio della loro ignoranza isterica. Così ci troviamo a dover negare la grandezza dei grandi, pur di sostenere la grandezza dei piccoli. Ancora una volta, si dimostra che l’approccio sovietico di questi militanti, i Social Justice Warrior, punta a una sostituzione della classe dominatrice con una nuova casta di sacerdoti sostenuta però da nessun libro, anzi dal contrario di un libro. La nuova Bibbia? La non-Bibbia. La nuova visione? La non-visione. E le torri della cultura classica, del cristianesimo paolino, della scienza politica italiana, tedesca, inglese, crollano. Crollano schiacciate da una potenza di fuoco inespressa ancora, perché la Cancel Culture è ancora in volo e sta mietendo solo vittime sparse. Ma arriverà il momento in cui una forza dissipatrice addenterà la preda. E stiamo preparando il terreno per l’omicidio più brutale della Storia.