È difficile sovrastimare il contributo di Jürgen Habermas al pensiero contemporaneo. Si tratta di uno dei filosofi più rilevanti dei nostri tempi, nato nel 1929, allievo di Adorno, Horkeimer e figlio della Scuola di Francoforte (oggi è l’esponente in assoluto di maggior importanza). Il filosofo tedesco non è la prima volta che si esprime sulla questione israelo-palestinese. Già nel 2015, infatti, sostenne di non poter dare un giudizio sullo Stato ebraico poiché era un privato cittadino tedesco, mentre la questione richiedeva piuttosto un’opinione di natura politica, che andava oltre le capacità morali di un singolo individuo. Al tempo la sua mancata presa di posizione venne fortemente criticata come anti-illuminista (per esempio sul New York Times), ma oggi, alla luce del comunicato rilasciato insieme agli studiosi Nicole Deitelhoff, Rainer Forst e Klaus Guenther sulla pagina Normative Orders, quell’opinione assume una forza tale da impartire una lezione importante. Non solo ai docenti anti-Israele, firmatari di una vergognosa lettera per bloccare qualsiasi rapporto con le università israeliane, ma ai tanti scettici europei e ancora di più italiani, che armati di kefiah e una rabbia ingiustificata (loro, in Occidente, non sono le vittime, anche se si comportano come tali) scendono in piazza contro Israele, alimentando più o meno consapevolmente una forma di antisemitismo contemporaneo ed “eterno”.
Ciò che Habermas scrive nel comunicato si fa forte di una premessa: “Riteniamo che tra tutte le opinioni contrastanti espresse, ci siano alcuni principi che non dovrebbero essere contestati. Sono la base di una solidarietà giustamente intesa con Israele e gli ebrei in Germania”. Questa frase va tenuta a mente e dovrebbe essere estesa a tutta l’Europa. Sicuramente all’Italia. E il motivo è semplice: “L'etica democratica della Repubblica Federale Tedesca, orientata all'obbligo del rispetto della dignità umana, è legata a una cultura politica per la quale la vita ebraica e il diritto di esistere di Israele sono elementi centrali degni di particolare tutela alla luce dei crimini di massa dell'era nazista”. Prima lezione. Il diritto a esistere di Israele, pur non derivando esclusivamente dai crimini nazisti, trova in una comprensione di quel periodo un motivo di legittimità agli occhi degli occidentali che non può essere messo in discussione. Qualsiasi sia il giudizio su questi anni, nessun europeo dovrebbe mettere in dubbio la possibilità di esistere dello Stato ebraico. L’antisionismo tanto caro alla sinistra sembra alimentarsi, paradossalmente, di un’irrisolta tolleranza nei confronti del genocidio ebraico. È altrimenti impossibile tenere a mente l’Olocausto e desiderare la distruzione di Israele. Questo ancora di più vale per gli italiani, che durante la Seconda Guerra Mondiale furono i gemelli ideologici, politici e storici della Germania nazista. Quando Habermas sostiene che la Repubblica Federale Tedesca si fondi anche sul rispetto dell’integrità di uno Stato di Israele, sta dicendo qualcosa che in Italia, in un mese di guerra, ancora non abbiamo sentito. Eppure anche la nostra Repubblica dovrebbe fondarsi sul sovvertimento del Ventennio fascista, quindi anche delle leggi razziali, della caccia agli ebrei e del rapporto di alleanza politica con il Terzo Reich.
L’equazione antisionismo-antisemitismo si fa forte anche delle considerazioni dello storico Daniel Goldhagen, che in un’opera monumentale come The Devil That Never Dies: The Rise and Threat of Global Antisemitismi (Little, Brown Compagny, 2013) scrive: “La corrente dell'antisemitismo globale più alimentata dal potenziale polemico ed emotivo della continua occupazione di Israele in Cisgiordania e della recente conclusione dell'occupazione di Gaza in particolare, in contrapposizione all'esistenza di Israele in generale, è stata l'antisemitismo di sinistra e la versione soft di esso che è stata al centro del disonesto orientamento ai diritti umani di gran parte dell'Europa e della comunità internazionale dei diritti umani”. Quella stessa sinistra rappresentata, tra gli altri, da Jeremy Corbyn, che durante il programma di Pier Morgan, TalkTV, si è rifiutato per ben diciassette volte di rispondere a una semplicissima domanda: “Hamas è un gruppo terroristico?”. Torniamo per un attimo alla dichiarazione del 2015 di Habermas. Il silenzio del filosofo tedesco assume ora tutt’altro significato. Il silenzio di Habermas, infatti, si contrappone concettualmente al falso silenzio di Corbyn. Se da un lato c’è quella sospensione di giudizio che, alla luce di quanto scritto oggi, sembra evidentemente giustificata (come parlare di ciò che è legittimo o meno al popolo non solo della Diaspora, ma dello Sterminio per antonomasia?), dall’altro abbiamo un mutismo selettivo che impedisce a uno dei leader più famosi della sinistra inglese di dare addosso al nemico israeliano, Hamas, di cui si condannano le azioni (come ha fatto anche Elly Schlein in Italia), ma che difficilmente viene individuato come principale causa di quanto sta accadendo dal 7 ottobre in quei territori, morti civili comprese. Gran parte del senso comune filopalestinese si sta avvicinando pericolosamente a questa forma di mutismo ideologico che non nasconde altro che antisemitismo, quando dovremmo, se vogliamo restar zitti, imporci il silenzio dei filosofi, l’epochè di Habermas. L’unico eventuale silenzio dignitoso.
“Il massacro di Hamas, con l’intento dichiarato di eliminare la vita ebraica in generale, ha spinto Israele a reagire. Il modo in cui viene attuata questa ritorsione, giustificata in linea di principio, è oggetto di dibattito controverso; i principi di proporzionalità, la prevenzione delle vittime civili e la condotta di una guerra con la prospettiva di una pace futura devono essere i principi guida. Nonostante tutta la preoccupazione per il destino della popolazione palestinese, tuttavia, i criteri di giudizio scivolano completamente quando alle azioni di Israele vengono attribuite intenzioni genocide”. Seconda e terza lezione. Hamas ha attaccato, ripeterlo può essere utile, qualsiasi ebreo. Nessun obiettivo militare o strategico, ma la pura e semplice volontà di distruggere gli ebrei. David Grossman, uno scrittore per altro da decenni critico nei confronti di Netanyahu, parla di “male estremo”. Lo sterminio indifferenziato sembra dar ragione proprio a Goldhagen, che associava il nuovo “antisemitismo globale” a un odio antiebraico non solo politico, ma esistenziale. Gli ebrei sono considerati demoni (per gli islamici e fin troppi cristiani, infedeli). Questo fa sì che si gonfino, si estremizzino e infine di manipolino le critiche a Israele. E si arriva alla terza lezione: l’uso del termine genocidio. Davvero possiamo accusare gli israeliani di genocidio palestinese? L’accusa non solo non tiene conto della storia di questo termine e della storia dei due popoli coinvolti, ma è tanto pretestuosa quanto aggressiva. Cos’è? Vogliamo denazificare la Palestina? Il cerchio si chiude e pare che l’abuso ideologico della storia dell’Olocausto risulti utile agli antisionisti/antisemiti esattamente come Putin sperava risultasse utile all’inizio della guerra in Ucraina. Chi mai vorrà andare contro un tentativo di denazificazione?
Ultima lezione: “… tutti coloro che nel nostro Paese hanno coltivato sentimenti e convinzioni antisemite dietro ogni tipo di pretesto […] ora vedono una gradita opportunità per esprimerli senza inibizioni”. Chi sostiene che le manifestazioni filopalestinesi organizzate a partire dall’8 ottobre, subito dopo l’attacco di Hamas, non avessero l’intento di legittimare l’attacco terroristico contro Israele, sbaglia. Ci sono molti modi di legittimare, per esempio usando l’occasione dell’attacco per alimentare la cosiddetta causa palestinese. Il fatto che quell’attacco sia sembrato un buon espediente per manifestare contro Israele significa avergli dato dignità culturale e politica, quindi giustificazione. Tale giustificazione si esprime poi in modo più diffuso nella vita di tutti i giorni, dalle stelle di David sui muri all’assalto a un aeroporto e così via. Senza inibizioni, cioè senza il pudore che qualsiasi discorso pubblico dovrebbe conservare (e su cui proprio Habermas ha lavorato per decenni). Ecco cosa dovremmo imparare, soprattutto in Italia. Dove si cela l’antisemitismo, cosa significa la rabbia di quelle piazze filopalestinesi e antisraeliane, e di che natura sia il rischio che Israele corre in questo momento (l’annientamento). Intanto duecentomila persone si sono ritrovate a Washington DC per manifestare per Israele e i commenti sono quasi sempre: nessun grido di odio, nessun volto coperto, nessun atto di vandalismo. Perché non c’è niente da nascondere.