L’attacco al kibbutz Kfar Aza ha fatto duecento morti, tra questi quaranta bambini, alcuni dei quali neonati. Tra i bambini, alcuni sono stati decapitati. Gli attacchi hanno portato, inevitabilmente, a schierarsi. Gruppi studenteschi italiani, per esempio a La Sapienza di Roma, hanno sostenuto: “Non faremo un passo indietro finché il rettore Polimeni e il Senato accademico non ritireranno la mozione contro la Palestina pro-Israele. Se non cambierà, intifada pure qua”. A Chicago alcune sezioni dei Black Lives Matter sono finite nel mezzo di una polemica per dei post social anti-Israele. Il presidente degli studenti di giurisprudenza della New York University afferma che Israele avrebbe la “piena responsabilità” per l’attacco di Hamas. Di fronte alla Sidney Opera House un gruppo di esaltati grida “gasare gli ebrei”.
Entrare nel merito significa fare il lavoro degli altri, un lavoro ben poco utile in questo momento. Di fronte a dei bambini decapitati prendere le parti di qualcuno e inneggiare a quella violenza non può che essere una sconfitta. Anche se, e questo è un fatto, le morti civili tra i palestinesi sono state nel corso degli anni decisamente di più. Anche se, cioè, i palestinesi non hanno potuto fare altro che appoggiarsi a un’organizzazione estremista e terrorista come Hamas, come ritiene qualcuno. Gioire, esultare, mostrare i video in piazza da telefono, mentre l’unica espressione sostanziale della rivolta palestinese è la serie di uccisioni, famiglie bruciate vive, stu*ri e raid sui civili di queste ore, significa oltrepassare quel limite che gli occidentali dovrebbero tenere in considerazione.
E non perché non si possa avere un’opinione, denunciando l’ingerenza e le violazioni di Israele contro i palestinesi. Ma perché se si vogliono prendere le parti tra una quasi democratura come il governo di Netanyahu e una forza politica antimoderna e antidemocratica con aspirazioni da regime teocratico che ha sostenuto, insieme all’Iran (finanziatore principale di Hamas), la vittoria dei talebani in Afghanistan, siamo sicuri di aver scelto la parte giusta? Ricordiamo quando qualche mese fa si riprendevano ovunque i video delle donne picchiate e insultate dalla polizia morale talebana? Davvero sostenere una causa sostenendo inevitabilmente la scalata al potere di Hamas può essere degna dei valori occidentali?
Sono domande. E il momento per rispondere deve essere rimandato. Non sono gusti personali, non è istinto, sesto senso, una politica allo stato animale. Non può essere tifoseria. Nella nostra testa avremo anche una preferenza, ma oggi cosa emerge? Emergono persone più o meno mascherate che nelle piazze delle metropoli occidentali gioiscono per questo inizio di contrattacco, per la pentola a pressione esplosa in violenze ses*uali e uccisioni a tappeto. Mi colpisce il video prima del raid sul rave. Donne scoperte che ballano. Mi piacerebbe, se e quando questa guerra finirà, tornare a vedere donne scoperte e ragazzi liberi che ballano.
Intanto mi preoccupa avere in casa persone in grado di accettare la violenza sui civili come risposta a una violenza sui civili. Mi preoccupa che negli anni siano passati i messaggi di Terzani e Maraini, ma non quelli di Oriana Fallaci. E non quelli dettagli dalla rabbia e dall’orgoglio (così si intitolava il suo pamphlet condannato), ma da “la forza della ragione” (l’inevitabile seguito, a mente fredda, di quelle riflessioni). Sembra di tornare a quell’Undici settembre in cui qualcuno ebbe il coraggio di contestualizzare e persino esultare all’indomani dell’attacco kamikaze. E cresce l’allerta attentati nei Paesi occidentali, tanto da farti pensare che sarebbe il caso di evitare quartieri ebraici e sinagoghe.
Meritiamo questa paura? C’è chi crede che gli errori dell’Occidente, inerte nei confronti degli eccessi sionisti dello Stato di Israele ai danni dei palestinesi in questi decenni, siano la dimostrazione che, sì, la meritiamo. Ma questa rabbia e questo orgoglio di senso opposto che significato possono avere, se non quello di terrorizzarci ancora di più e stavolta non per qualche attentato, per qualche danno materiale, ma per qualcosa che si infiltra nella struttura stessa della visione occidentale: l’antioccidentalismo. Questo rincorrere i nostri errori di fronte agli errori altrui, più cogenti, che ammutoliscono. Corpi di neonati a terra, corpi di bambini senza testa. Corpi di donne con il cavallo dei pantaloni insanguinato. Chi gioisce a migliaia di chilometri di distanza, chi è nato in America, in Francia, in Australia, chi di quel popolo conosce le battaglie importate e avrà qualche amico palestinese, che diritto ha di scendere in piazza ora e appoggiare il contropiede palestinese di fronte a queste immagini.
Ci sono anche notti insonni in cui tornano alla mente gli errori. Inevitabile pensare alla questione ucraina, avendo dato più peso all’analisi geopolitica che non ai valori, quando si dovrebbe pretendere dagli analisti che lascino da parte i valori e dai cittadini che lascino da parte la geopolitica, che non è affar nostro. Notti insonni, l’ultima delle quali con in testa l’immagine di un reporter in ginocchio che parla a una telecamera, sullo sfondo corpi imbustati fuori dal kibbutz.