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Silvio Berlusconi non doveva morire

  • di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

Silvio Berlusconi non doveva morire
Economia, comunicazione, sport, politica: pochi uomini hanno inciso sull’Italia del secondo dopoguerra come l’ex Cavaliere, e non appaia un’esagerazione perché, ben prima di guidarlo da palazzo Chigi, il Paese lo aveva già in mano dal punto di vista culturale: calcio e tv commerciale, un’estetica rampante molto anni Ottanta che lo avrebbe portato alla conquista dei palazzi del potere, passando dall’amicizia con Galliani a quella con Putin. Ha comprato tutto e tutti, si trattasse di calciatori, soubrette, conduttori, parole, silenzi. Era il male assoluto, il diavolo, il caimano. Ma ciò che è venuto dopo lo fa passare come un padre della patria

di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

Dopo essere finito in terapia intensiva nella settimana pasquale, quasi una barzelletta delle sue, e averci fatto credere alla possibilità dell'ennesima sua ripresa, Silvio Berlusconi ci ha giocato un brutto scherzo e il 12 giugno 2023 è morto.  Mischiare sacro e profano e quel siparietto nello studio di un adorante Bruno Vespa, anno 2008 (peraltro una riproposizione della medesima gag fatta al Maurizio Costanzo Show nel 2001) rientrano a pieno titolo negli stilemi che il Berlusconi politico ha sempre proiettato su di sé: “uomo della Provvidenza”, “Gesù Cristo della politica”, sino al primigenio “unto dal Signore”, definizioni datate rispettivamente Rimini 2006, Ancona 2006 e Roma 1994 (per la precisione: “Chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore”), e allora la coincidenza si presta facilmente al black humor, che peraltro non gli è mai mancato.

Economia, comunicazione, sport, politica: pochi uomini hanno inciso sull’Italia del secondo dopoguerra come Silvio Berlusconi, e non appaia un’esagerazione perché, ben prima di guidarlo da palazzo Chigi, il Paese lo aveva già in mano dal punto di vista culturale, tanto da far sbraitare il Rutelli imitato da Corrado Guzzanti, anno 2001 ne “L’ottavo nano” (oggi sarebbe body shaming?), con un calzantissimo “er Paese non è né de destra né de sinistra: er Paese è dde Berlusconi!”. Perché sì, insomma, hai voglia a dire l’egemonia intellettuale della sinistra, ma la pancia dell’Italia, con la sua estetica anni Ottanta e sufficientemente amorale, era con lui. Era lui.

Era lui che aveva dato agli italiani la televisione commerciale gratuita, che li aveva storditi di pubblicità e circenses, nani e ballerine, meglio se in topless o comunque parecchio succinte, ricchi premi (dei telequiz) e cotillons, omologazione gaudente a cervello spento. Era lui che aveva iniziato il duopolio Rai-Fininvest inserendosi furbescamente in un settore non normato che, con il primo governo Craxi, aprì alle prime leggi ad personam quando ancora non si chiamavano così, ma chi conosce la storia della tv italiana non può non ricordare i tre Decreti Berlusconi che fotografarono l’esistente prima della Legge Mammì. Ok, d’accordo: per spiegarla in due righe a chi ha meno di trent’anni è qualcosa di troppo complesso, ma il potere di Berlusconi nasce lì, non con l’immobiliare, non con Milano 2, non dalla fatidica domanda che per anni lo ha accompagnato, quella sul dove avesse preso i soldi con cui iniziò la sua avventura di imprenditore, non dalle foto del 40enne rampante, elegante, dallo sguardo scuro e con revolver sulla scrivania di una celeberrima foto del 1977.

Il Cavaliere, ex in realtà, è stato l’elicottero che atterra all’Arena civica nel 1986 accompagnato dalla Cavalcata delle Valchirie e cambia la storia del Milan, è stato le sgallettate e i comici del Drive In, la P2 ed Emilio Fede, il processo SME e la guerra di Segrate, il Mundialito e i Ragazzi della Terza C, quello che diede i tg alle tv private e che “se avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice” (la definizione era di Enzo Biagi). Quello che, dal 1994 in avanti, per generazioni di italiani è ricordato soprattutto come un politico, quello del videomessaggio a reti unificate del 1994 (“L’Italia è il Paese che amo”), della distruzione della “gioiosa macchina da guerra” del Partito Democratico della Sinistra, quella della prima elezione nel collegio di Roma 1 contro un illustre economista e ministro (“Questo Spaventa vinca gli scudetti e le Coppe dei Campioni che ho vinto io e ne riparliamo”), degli inviti al voto perpetrati – sì, perpetrati – sui suoi canali dai vari Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, Iva Zanicchi, da un’Ambra Angiolini minorenne, quello dell’identificazione tra leader di coalizione e candidato premier che ha stravolto di fatto e per consuetudine, anche se non de iure, la Costituzione. E, così, da Sacchi e Galliani è passato a Clinton e Putin, da Carmen Russo alla Merkel (“culona inchiavabile”) e “Mister Obamaaaa”, dagli stadi ai palazzi della politica (trasferiti di fatto nelle sue ville), attorniato da giornalisti scodinzolanti e parlamentari di volta in volta cagnolini da riporto (l’epocale voto del 2010 su Ruby nipote di Mubarak) o rabbiosi mastini da talk show. Quelli dove i suoi azzannavano e lui stravinceva da ganassa, firmando il contratto con gli italiani nel 2001 o andando a battere in casa loro Travaglio e Santoro, anno 2013, in una resa dei conti che non andò come i suoi grandi accusatori speravano.

Berlusconi è stato per tanti, e a giusta ragione, il male assoluto, emblema di una politica prostrata agli interessi del capo, più che vagamente inetta nell’elezione di servitori fedeli più che di politici capaci, di una polarizzazione incivile, al punto che oggi fa sorridere vedere l’affetto con il quale al suo capezzale lo ricordano coloro che lo hanno detestato quando era tutto suo, quando comprava tutto e tutti, si trattasse di calciatori, soubrette, conduttori, parole, silenzi, addirittura magistrati secondo una delle tante accuse. Era il diavolo, il caimano, un satiro lussurioso, un politico irricevibile perché già massone e non privo di rapporti con elementi mafiosi, con mille processi sulle spalle eppure al comando; pareva che non potesse esserci nulla peggio di lui, che in effetti i pozzi li ha avvelenati, anche se poi l’ingresso in scena dei 5 Stelle, o quello di Salvini quale leader spirituale della destra lo fanno passare oggi come un padre della patria. Per dire, uno che l’Economist definì “unfit to lead Italy”.

Nel suo ventennio, segnato da tre governi, Berlusconi ha segnato un’epoca e un linguaggio. Sua è la “discesa in campo”, suoi sono i “turisti della democrazia”, suo l’abuso – se non addirittura il conio – del termine “liberticida”, suo il “nuovo miracolo italiano”, le “cene eleganti”, il Bunga Bunga, l’editto bulgaro, il conflitto di interessi perenne; su di lui sono ricaduti il “ciarpame senza pudore”, il soprannome di “papi”, quella che Paolo Guzzanti (ex deputato di Forza Italia) ha chiamato “mignottocrazia” e chissà quanto altro manca, perché l’Italia non è di sinistra, forse è di destra, ma di sicuro è stata sua.

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