Simonetta Cesaroni aveva 20 anni, un lavoro part-time in uno di quegli uffici in cui ti senti solo ospite, due volte a settimana. Era martedì 7 agosto 1990, e non sarebbe mai tornata a casa. A ucciderla bene 29 coltellate in una stanza dell’AIAG, Associazione Italiana Alberghi della Gioventù, in via Poma 2, Roma. Una carneficina. Tre litri di sangue persi, trenta ferite sul corpo, parzialmente denudato. L’arma? Mai trovata. L’assassino? Nemmeno. Trentacinque anni dopo, il gip Giulia Arcieri ha rimesso in discussione tutto: ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura, riaprendo un fascicolo a carico di ignoti. E demolendo, in 55 pagine, trentacinque anni di indagini a vuoto: “Guardate dentro quelle stanze”, scrive. Non più all’esterno. Ma dentro l’ufficio dove Simonetta è morta. I sospettati del passato sfilano come fantasmi: Pietrino Vanacore, il portiere; Federico Valle, nipote di un noto architetto; Raniero Busco, l’ex fidanzato, poi assolto dopo un processo durato anni. Ma il giudice oggi indica un'altra direzione: il lavoro, e forse i suoi stessi colleghi. Quelli che, come lei, lavoravano il martedì e il giovedì pomeriggio. Una pista che già nel 1996 un giornalista, Gian Paolo Pelizzaro, aveva suggerito in un dattiloscritto intitolato “L’intrigo. La strana morte di Simonetta Cesaroni”. Documento ignorato per anni e riscoperto solo ora da Giacomo Galanti, autore del podcast “Le ombre di via Poma”, e di un documentario Rai sul caso. Il testo è diventato un libro: “L’intrigo di via Poma” (Baldini+Castoldi, 602 pagine), che fa luce su omissioni, bugie e possibili coperture. Un giallo pieno di nomi, e forse anche di verità.Tra i misteri più gravi, quello dei “fogli firma”: schede con cui i dipendenti AIAG segnavano la loro presenza.

Il giorno dell’omicidio risultano al lavoro in due: Maria Luisa Sibilia, che uscì alle 15, e Giuseppina Faustini, che non indicò l’orario d’uscita. Ai pm disse di non conoscere Simonetta e di non essere in ufficio quel giorno, ma oggi spunta un foglio che la smentisce. Una copia era nelle carte del padre di Simonetta, fin dal ‘91. L’originale? Sparito. La Faustini, secondo la Procura già nel 2003, “potrebbe essere rimasta per un turno di recupero pomeridiano”. Lo stesso giorno e negli stessi orari della vittima. Coincidenza? Il foglio ora è prova. E conferma ciò che Pelizzaro aveva raccolto quasi 30 anni fa da una collega di Simonetta. Ma non finisce qui. Nel libro emerge un legame torbido tra l’AIAG e i servizi segreti: legami stretti tra dirigenti degli ostelli e alti funzionari del Sisde. In particolare tra Vito Di Cesare (segretario AIAG) e Riccardo Malpica (all’epoca direttore dei servizi), che di Di Cesare era cognato. Troppo vicino, troppo potente. Il sospetto del giudice Arcieri è che queste relazioni abbiano condizionato, o peggio, inquinato le indagini. E poi c’è lui, il grande assente: Francesco Caracciolo di Sarno, datore di lavoro di Simonetta, mai indagato. Eppure un appunto della Polizia dell’11 gennaio 1992, firmato da Carmine Belfiore, parla di lui come uomo di “dubbia moralità”, noto per molestie. Lo stesso giorno dell’omicidio fu visto rientrare a casa “affannato e con un pacco mal avvolto”. E, sempre quella sera, il suo fattore ricevette due telefonate urgenti per avvertirlo di richiamare Roma. Quando ancora il corpo di Simonetta non era stato ritrovato. Ma lui? Mai sfiorato dalle indagini.
