Sì alla revisione del processo per Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati in via definitiva all’ergastolo per gli omicidi di Raffaella Castagna, il piccolo Youssef Marzouk di poco più di due anni, Paola Galli, Valeria Cherubini e per il tentato omicidio di Mario Frigerio. La Corte d’Appello di Brescia, ordinando la citazione a giudizio di tutte le parti all’udienza dibattimentale che si terrà il prossimo primo marzo, fa retrocedere i coniugi Romano al ruolo di “imputati”, che da ormai diciotto anni stanno scontando il massimo della pena prevista dal nostro ordinamento. Ma come si è arrivati a questo risultato? Oltre alle istanze di revisione presentate quasi in contemporanea dal sostituto procuratore generale Cuno Tarfusser, dal tutore e dai legali dei due coniugi, gran parte del merito va al giornalista delle Iene Antonino Monteleone, che noi di MOW abbiamo intervistato, convinto sostenitore dell’innocenza di Rosa e Olindo. Dal 2018 Monteleone si occupa delle indagini e del processo che si è svolto per accertare la verità nel caso della Strage di Erba, consumatasi nel dicembre del 2006, quando un vigile del fuoco accorso per un incendio nella casa di Raffaella Castagna scoprì i quattro cadaveri. Fin da subito le indagini puntarono sui vicini di casa, i coniugi Romano. L’unico sopravvissuto alla mattanza, Frigerio, riconobbe Olindo come l’uomo che aveva tentato di ucciderlo, mentre i carabinieri trovarono nella sua auto una macchia di sangue appartenente a una delle vittime. Nel gennaio del 2007 arrivò la confessione da parte di marito e moglie, dopo che avevano tentato di difendersi mostrando uno scontrino del McDonald’s, ma l’orario non li scagionava dall’omicidio. Insieme all’inviato delle Iene Antonino Monteleone, che da anni si spende per arrivare alla verità, abbiamo ripercorso con lui tutto il lavoro che ha permesso di arrivare a questa revisione, perché non si può essere disposti a tollerare che degli innocenti restino in carcere soltanto perché l’opinione pubblica ha bisogno di un mostro dietro le sbarre. Perché, a quanto pare, nel dubbio meglio condannare che assolvere. Meglio due innocenti in galera che aprire l’orizzonte delle indagini, introducendo la possibilità di altri scenari. Ricordiamo che Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, al tempo della strage era coinvolto in un traffico di droga, ed era uscito da poco di prigione dopo una condanna per spaccio. Lo stesso Marzouk si è più volte dichiarato convinto dell’innocenza di Olindo e Rosa, chiedendo la revisione del processo. E su Selvaggia Lucarelli, che non ha perso occasione per mostrare il suo credo totale sulla sentenza di Cassazione: “Lei non è allenata a coltivare dubbi, ma a vendere certezze. Per sostenere che ha capito tutto deve ripetere sempre qualche bugia. Perché un racconto senza bugie è un racconto in cui capisci che questi non c’entrano un cazzo”.
Come ti sei sentito quando hai saputo della revisione?
È stato abbastanza impegnativo emotivamente. Anche perché era l’alba qui a New York, vedevo che da un po' mi squillava il telefono e non capivo il perché. Poi ho letto la notizia. Ho avuto un momento di commozione.
Te l’aspettavi?
Sì, ma non così presto.
Era nell’aria?
Era nell’aria che a Brescia si sarebbe deciso qualcosa, ma non sapevo cosa e quando. È arrivata una buona notizia.
Quando hai iniziato a interessarti della strage di Erba?
Mi interesso al caso dal 2011, è nato tutto dall’amicizia con Felice Manti, lui se ne occupava già con Edoardo Montolli. Tredici anni fa abbiamo scritto un libro sulle infiltrazioni dell’Ndrangheta in Lombardia, e in un capitolo avevamo trattato le questioni delle contese per il controllo dello spaccio. Quella fu l’occasione per Felice Manti di stimolare la mia curiosità.
E ci riuscì.
Nel 2018 iniziai a trattare la storia di Erba a Le Iene, dove ero arrivato la stagione prima. Mi sono occupato anche del caso di David Rossi, su cui abbiamo fatto aprire due commissioni d’inchiesta. Poi ho deciso di occuparmi di Erba.
Hai dubitato fin da subito che Olindo e Rosa non fossero i reali colpevoli?
I dubbi me li sono tolti tutti quando sono stato sui luoghi, e quando li ho incontrati. Finché uno non sa la geografia dei luoghi, cosa sarebbe dovuto succedere secondo le sentenze un dubbio ce lo può avere, dopodiché non sta niente in piedi. Mi sono reso conto che chi questa storia la legge dai giornali ha delle lacune che sono molto difficili da colmare senza l’accesso diretto al materiale processuale.
Accade spesso anche con molti altri casi di cronaca. Quello che viene passato mediaticamente è solo una piccola parte, e spesso anche sbagliata.
Assolutamente. La prima regola per chi informa sarebbe quella di informarsi, e in tanti casi non viene rispettata. È pieno di gente che fa il nostro mestiere che informa senza prima informarsi. Questo crea un cortocircuito che non fa bene a nessuno.
Diventa un copia e incolla.
L’informazione giudiziaria in Italia è un copia e incolla, perché nessuno vuole sopprimere i rapporti con la propria fonte, e se la tua fonte è la polizia giudiziaria o i magistrati del pubblico ministero, difficilmente verrai “nutrito” una seconda volta se ti metti a fargli le pulci. Quindi ti limiti al copia e incolla, porti a casa il pezzo e sono tutti contenti.
Arrivato a questo risultato, cosa ti senti di dire a Selvaggia Lucarelli, convinta sostenitrice della sentenza di Cassazione?
Che su qualunque giornale o piattaforma che lei preferisce possiamo confrontare il livello di conoscenza sulla questione, io sono disponibile a farlo in qualunque istante. Credo che lei abbia un grande talento nell’aggrapparsi al tema del momento, farlo proprio e in qualche modo dominarlo. È qualcosa che ha più a che fare con le dinamiche di un parassita che con quelle di chi si interessa veramente alla questione. Lei vede un tema di cui parlano tutti e si inserisce nel modo che ritiene più opportuno. Se avesse dedicato un po' di tempo in più ad approfondire, e se nella vita avesse studiato diritto processuale probabilmente siccome è una persona intelligente arriverebbe a conclusioni diverse. Invece non è allenata a coltivare dubbi, ma a vendere certezze. Selvaggia Lucarelli fa Selvaggia Lucarelli, io faccio un altro mestiere.
Poi nel giornalismo non dovrebbero esserci gare.
Esatto, nessuna competizione con Selvaggia. Mi ha bloccato su tutti i social. Quindi quando dice qualcosa evita che qualcuno le possa rispondere. Nel caso di X mi ha bloccato dopo una discussione in cui le chiedevo conto di come fosse finita la questione della povera Alessia Mancini, che aveva insultato dicendole che sembrava una trans, ovviamente lei che ci insegna la moralità dicendo che trans non è un insulto. Le dicevo “hanno condannato te non me quindi vorrei sapere come è andata a finire”, e mi ha bloccato. Su Instagram invece mi ha fatto un blocco preventivo. Lei ha delle reazioni su certi argomenti che tradiscono non un rigore morale perché c’è il giusto e c’è lo sbagliato, perché deve farlo lei. Vuole il monopolio.
Non accetta il confronto con chi la pensa in modo differente.
Selvaggia Lucarelli ha deciso un giorno di occuparsi di questa storia solo perché se ne sono occupate Le Iene, perché lei prima del 2018 non aveva scritto nemmeno una riga su questa vicenda. È un giornalismo parassitario, si occupa del lavoro degli altri. Prima della strage di Erba l’unica inchiesta di cui si è occupata era delle magliette taccheggiate di Marco Carta al centro commerciale. La gente non se lo ricorda ma era questo il livello. Ovviamente poi assolto, non aveva rubato niente. Nel caso specifico di Erba c’è chi sa e chi non sa. Poi c’è un tema, possiamo essere d’accordo sui fatti e concludere in modo diverso. No problem.
Ma con Selvaggia Lucarelli non funziona così.
Lei per sostenere che ha capito tutto deve ripetere sempre qualche bugia. Non riesce a fare un racconto basato sui fatti per sostenere la colpevolezza. Questo purtroppo è un problema di tutti, e quando dico tutti intento Corriere, La Stampa e Repubblica. Perché un racconto senza bugie è un racconto in cui capisci che questi non c’entrano un cazzo.
Adesso poi è molto impegnata con i pandori di Chiara Ferragni.
Ha fatto questo lavorone incredibile, verrà premiata e invitata. Il nostro sistema mediatico tende ad elevare persone come Selvaggia Lucarelli. Ma non ho tempo di occuparmi di lei, investo tutto il mio tempo nel fare il mio mestiere. Lei a guardare quello che fanno gli altri, guarda e commenta. È la mia spettatrice numero uno, perché non se ne perde una delle cose che faccio. Lei ce l’ha con Le Iene perché le hanno negato la ribalta, e ora tutto quello che fa Antonino Monteleone diventa pane per i suoi denti. Sono contento che lei si appassioni alle storie che seguo io, però vorrei che si appassionasse alle storie che interessano a lei. Se ne scegliesse una, non è che deve venire sempre a prendersi le mie. Mi sta anche simpatica, non c’è niente di personale, ma non so se sia lo stesso anche per lei.
Molto spassoso il video che hai pubblicato in cui ti trovi davanti la sede del New York Times e riprendi scherzosamente “la teoria” della Lucarelli.
Lei ha letto il New York Times e ha dubitato della ricostruzione dei fatti del 7 ottobre, abbastanza imbarazzante. Sceglie gli argomenti da trattare e li tratta come meglio crede. Su alcune cose è anche brillante, poi ogni tanto sconfina in campi che non sono i suoi campi di applicazione e secondo me manca il bersaglio. Liberissima di farlo. Sarebbe gradevole che lei non sindacasse il lavoro altrui, ma tanto non è più iscritta all’ordine dei giornalisti, quindi non ha più obblighi di lealtà e correttezza con i colleghi. Può fare un po' come le pare.
Chi ha commentato negativamente il tuo video non ne ha colto davvero il senso, fermandosi all’apparenza.
Sono sempre meno. Poi chi pensa di raccogliere consenso facendo il giornalista ha sbagliato mestiere, chi pensa di produrre contenuti attorno ai quali tutti sono d’accordo ha sbagliato idea di giornalismo. Questo non è un mestiere fatto per chi va in paranoia per un commento negativo, non è un mestiere per chi è debole di cuore e per chi subisce il giudizio degli altri. Il giornalismo è qualcosa che si fa rispondendo alla propria coscienza, alla realtà e ai fatti. Io rispondo di quello che dico, non di quello che la gente capisce. Invece negli ultimi quindici anni ho visto molti colleghi soffrire del giudizio degli altri, e nel tentativo di creare un contenuto che piaccia a tutti perdono di vista il vero senso del nostro lavoro: raccontare tutte quelle cose che qualcuno non vorrebbe che gli altri sapessero. Tutto il resto è propaganda.
Poi non bisogna confondere il giornalismo investigativo con la cronaca giudiziaria.
Sono due mondi molto distanti. La cronaca giudiziaria è chi si prende quello che ha detto il giudice e lo traduce in termini comprensibili per il pubblico. Quello è un mestiere, poi c’è il giornalismo investigativo. Chi si prende la sentenza, si va a vedere il fascicolo e dice “questa cosa non torna, andiamo a capire perché, andiamo a capire cosa è successo”. Sono due cose rispettabili ma diverse, non è una migliore dell’altra. Ogni tanto le confondiamo e c’è questo fenomeno per cui i giornalisti oggi sono più affannati a difendere lo status quo, che dire “non ci possiamo permettere il rischio di avere due innocenti in galera”.
Quindi per qualcuno nel dubbio è meglio condannare?
Sì, invece basta un solo dubbio, anche davanti ad elementi che convincono della colpevolezza, per pronunciare una sentenza di assoluzione. Nei paesi civili funziona così. Poi c’è l’Iran, la Nord Corea e ogni tanto l’Italia.
Nel caso di Olindo e Rosa potremmo ridurre quello che è accaduto alla volontà di consegnare il colpevole all’opinione pubblica nel minor tempo possibile.
È probabile che sia capitato. Sono abbastanza persuaso che la pressione mediatica e l’esigenza di dare una risposta abbiano avuto un ruolo non secondario. Non voglio credere che dei magistrati si siano fatti prendere la mano. La gente non si ricorda. Molte persone che parlano oggi probabilmente nel 2006 andavano alla scuola elementare, o peggio grufolavano nel fango di un reality show, quindi si dimenticano quello che era il contesto dell’epoca, e invece bisogna tenerlo molto ben presente.
L’affanno di trovare il mostro a tutti i costi.
Quello sempre. Non c’è fame di verità, c’è fame di colpevole. Non c’è un caso mediatico che sia immune a questo meccanismo.
Secondo te qual è l’ipotesi più plausibile? Che idea ti sei fatto in questi anni?
Che sia stato sottovalutato e poco esplorato tutto il background che gira intorno ad Azouz Marzouk, alla sua famiglia e al ruolo che avevano nel mercato della distribuzione di stupefacenti in quel periodo. Un aspetto che, secondo il mio punto di vista, è stato molto poco approfondito.
I tuoi servizi sulla strage di Erba hanno portato tantissime persone a cambiare opinione su Olindo e Rosa.
Ma non perché noi siamo particolarmente bravi e convincenti. Abbiamo raccontato una serie di cose riscontrate e riscontrabili che però non sono mai state dette. In diciotto anni nessuno si era posto il problema di andare a parlare con il brigadiere che aveva trovato la macchia di sangue nella macchina di Olindo. Trovare, vedere dove abita, appostarsi per delle ore, sputare il sangue per fargli due domande a cui risponde che “mica li avranno condannati per questo, poteva essere un inquinamento”. Sono io che sono un fenomeno, o agli altri pesa il culo ad andare a cercare la gente e fare delle domande?
Siamo in un mondo professionale, quello del giornalismo, molto pigro.
Ci sono persone che hanno un approccio alla professione di carattere impiegatizio. Sono seduti alla scrivania, battono i tasti sul computer e hanno portato a casa la pagnotta. Non funziona così. Se tu hai un giornale, e lo usi per difendere quello che ha stabilito un potere dello Stato, non stai facendo l’interesse del lettore. I media esistono affinché il pubblico abbia informazioni che possa criticare. Visto che non perdoniamo niente a chi esercita il potere esecutivo e legislativo, non sarà il caso di diventare critici anche su chi esercita il potere giudiziario? E non essere la corazzata che deve difendere oggi la Procura di Roma e domami la Procura di Milano. A prescindere dal “se l’ha detto la Procura è vero”.
Come se le parole pronunciate dalla magistratura avessero una dignità superiore rispetto a quella delle altre persone.
C’è un’abdicazione della dignità. Siamo in democrazia e le sentenze vanno eseguite, ma il fatto che un signore ha vinto un concorso e indossi la toga non rende il suo intuito infallibile. Il giornalismo è un altro mestiere, ma ha la stessa dignità e importanza per il funzionamento della democrazia. Poi il giornalismo non manda la gente in galera. Noi giornalisti abbiamo mille cose da farci perdonare, ma non disponiamo di quel potere di privare qualcun altro della libertà.
C’è molta confusione in cosa consista veramente questa revisione della sentenza definitiva.
Analfabeti del diritto. Tutti a dire “questa non è una revisione, è un’udienza che deciderà se ci sarà o meno la revisione”. Se avessero dovuto fare la discussione sulla possibilità avrebbero convocato un’udienza in Camera di Consiglio ai sensi dell’articolo 127 del codice di procedura penale. Invece l’articolo 636 dice che quando inizia una revisione le parti vengono citate, si chiama giudizio di revisione. Dal momento in cui i condannati vengono raggiunti dal decreto di citazione non sono più condannati, ma retrocedono al ruolo di imputati.
Torna la presunzione d’innocenza?
No, ma da questo momento in poi bisogna essere cauti e osservare la legge. Attenzione a chiamarli assassini.
Che aspettative hai per quello che verrà?
Vediamo cosa succederà. Mi aspetto che due persone che stanno scontando una pena da innocenti vengano rimesse in libertà. Certamente non mi aspetto che qualcuno mi venga a dire “bravo”, perché l'Italia non è il paese dove alimentare questo tipo di aspettative. Olindo e Rosa devono essere riconsegnati al loro diritto di vivere liberi, chiaramente hanno una reputazione compromessa. Poi mi aspetto di non ricevere lezioni di giornalismo, niente rotture, ognuno si fa il suo in piena libertà.