Questa storia della “sinistra che non c’è” – espressione che di recente anche i Baustelle, per dire, hanno cantato – fa ancora riferimento a quell’idea storica di sinistra legata a doppio filo a un contesto socio-politico-culturale profondamente ideologizzato in cui tutti gli elementi del reale dovevano essere scrupolosamente separati e distinti, alcuni collocati a sinistra altri a destra ma per favore non si faccia confusione. La fluidità che oggi caratterizza il modus di intendere la politica contesta però non solo il concetto di “eredità ideologica” (quali ideologie? Quali eredità?) e ancor di più quello di una staticità etico-morale, ritenuta quasi sempre sospetta e buona solo, sembrerebbe, per gente ancora abituata a posizionare le palline di naftalina negli armadi secondo precise e incontrovertibili logiche. Così capita che certe idee migrino, oppure retrocedano. Così capita che nascano nuove battaglie e quelle di sempre cambino colore. Così capita che affiori, di nuovo, quella sensazione mica nuova, ormai, di “sinistra che non c’è”. Qui entra in gioco Marina Terragni, “milanese, anima vagante, femminista, madre, giornalista, scrittrice”, una che a sinistra ha dimorato per buona parte della propria vita ma che oggi, sempre là, in fondo a sinistra, trova solo muri. Non sarà né la prima né l’ultima, direte voi, però il fatto saliente, qui, è forse un altro. Conoscete il Feminist Post? Bene, pensereste mai – anche se non lo conoscete – che qualcosa che si definisce “feminist” possa abitare, oggi, lontano dalla sinistra?
Washington Post, Huffington Post. È necessario anche un “Feminist” Post?
Sì, perché è un luogo di informazione sempre aggiornato e forse, oggi, il maggior archivio europeo di notizie “gender critical”. E poi “post” in latino significa “dopo”, cioè il femminismo “dopo”, che va avanti.
Quando ha avvertito, per la prima volta, che ci fosse bisogno di un Feminist Post?
Una ventina d’anni fa, ormai. Quando iniziai ad occuparmi di utero in affitto. Un tema, allora, che era un autentico oggetto misterioso. Nel 2015 ho finito per scriverci un libro sulla questione. E nel 2016 sono stata sconvolta da una corposa antologia di scritti di femministe britanniche che mi aiutò a unire i puntini: il testo che avevo scritto nel 2007, “La scomparsa delle donne”, si stava rivelando una triste profezia.
Quindi non si sente protetta da quel mantello LGBT (ora LGBTQIA+, per essere precisi) che dal 2007 a oggi si è fatto parecchio ampio in area liberal-progressista?
No, perché le donne sono la maggioranza del genere umano, non una parte del mondo LGBT.
Quale tipo di femminismo trova alloggio nel mondo progressista, secondo lei?
Un femminismo modaiolo. Il nostro femminismo radicale, invece, si innesta sul femminismo storico. Ed è “gender critical”, questo è il punto.
Su quali basi il femminismo non radicale è stato convinto della bontà delle battaglie LGBT?
Difficile dirlo. Si tratta di donne molto giovani che non hanno esperienza né del pensiero né della pratica del femminismo storico. Anche il movimento classico ha avuto un lungo rapporto di vicinanza con quello che oggi è definito il mondo LGBT (allora era semplicemente il movimento omosessuale), ma molte donne arcobaleno hanno saltato una fase dialettica decisiva che il femminismo ha avuto con il mondo gay-lesbico sintonizzandosi direttamente, invece, con l’epoca del diritto individuale a fare tutto ciò che più si desidera. Un’idea folle, paradossale, di libertà. La libertà, ad esempio, di decidere a che genere appartenere. Ma la sintonia fra noi e il mondo omosessuale, nello specifico, ha iniziato a farsi più flebile sulla questione dell’utero in affitto. È solo di qualche giorno fa un servizio del Corriere che ci offre un Nichi Vendola che parla trasognato di come è diventato padre. Il servizio ne parla con toni quasi poetici, romantici.
Tuttavia queste giovani donne sembrerebbero a loro agio nella famiglia LGBT.
Il movimento Non una di meno (che nel resto del mondo è “gender critical”, ma non qui in Italia) mi pare che da noi stia perdendo slancio, a dire il vero.
In un precedente intervento lei suggeriva che forse il problema del mondo LGBT sta nella T, soprattutto.
Sì, perché conosco bene la lotta del movimento transessuale e la legge 164 del 1982, che consente il riconoscimento anagrafico dell’avvenuto cambio di sesso. All’epoca i transessuali erano una minoranza assoluta, in gran parte uomini che sarebbero diventati donne. Avendo un corpo “cosmeticamente” femminile, ma un nome maschile, venivano perseguiti per il reato di travestitismo, ad esempio. La lotta, quindi, era a favore di maschi quasi tutti operati. Oggi non è più così. E questo è un problema vero riconosciuto anche da promotori storici delle politiche pro-trans.
Perché?
Beh, un esempio per tutti: mettere in galera una donna trans (operata) insieme a una donna è un conto. Mettere in galera, insieme ad altre donne, un uomo che si identifica come donna ma che ha il corpo intatto di uomo (e che non è tenuto a fare le cure ormonali) è tutt’altro.
Dietro l’angolo, a questo punto, c’è il tema del self-id, l’autoidentificazione.
Sì. Proprio qualche giorno fa mi sono imbattuta in un nuovo capitolo del dibattito sulla cosiddetta “carriera alias” nelle scuole. “Carriera alias” significa riconoscere un’identità di genere diversa dal sesso a uno studente o a una studentessa. La cosa può funzionare se si tratta di percorsi già avviati, in attesa di sentenza, ma qui il problema è un altro. Ci sono studenti di entrambi i sessi che, liberamente, in base a un’autopercezione, decidono di appartenere al sesso opposto. Senza aver intrapreso alcun percorso. Se poi consideriamo che questa possibilità viene anche vissuta come un definitivo atto di libertà, una trasgressione, una suprema contestazione della norma, ecco allora il problema di cui parlavo prima.
Solo voi e i soliti noti vedete il problema, quindi?
No. Lo ha ammesso anche WPATH, la più grande organizzazione mondiale che si occupa di salute transgender: esiste un problema di contagio sociale.
Quanto è presente la questione del self-id nell’attuale agenda del Partito Democratico?
Direi che è molto presente. Elly Schlein nel suo programma delle primarie accennava a quanto la legge del 1982 fosse superata. La spinta, forte, è verso l’autodeterminazione di genere.
In tutto questo discorso si perde quindi la nozione di “disforia di genere”?
Beh, intanto la disforia di genere è stata parzialmente depatologizzata, ma credo che l’intenzione sia quella di aggirare l’ostacolo di netto. Se ciascuno di noi può liberamente autodefinirsi il problema della disforia di genere non si pone nemmeno più.
Schlein, diceva. Al di là delle prime analisi politiche che vedevano nel suo arrivo alla testa del Pd una sconfitta dei moderati e dei cattolici di quell’area, crede che davvero Schlein promuoverà politiche così forti sul fronte gender?
La sua identità politica dice quello, non ha mai nascosto nulla. Schlein non andrà mai in contrasto con alcun tema protetto dall’ombrello trans-attivista e trans-umano, anche perché a livello internazionale società come Open Society e Social Changes hanno questa impostazione. E lei deve rendere conto a loro. La conosco da anni, Elly, dal punto di vista politico è stata meticolosamente costruita per seguire queste tracce.
Però proprio il Feminist Post ha di recente riportato una notizia secondo cui in Gran Bretagna si va verso una distinzione legale fra “nate donne” e “trans”. Il contesto internazionale di cui parlava prima non è così omogeneo allora…
Vede, negli ultimi tempi in Gran Bretagna, soprattutto dopo la chiusura della Tavistock Clinic (l’unico presidio sanitario pubblico dedicato alla disforia di genere dei minorenni trattata con farmaci bloccanti della pubertà, nda) hanno cominciato a fare marcia indietro. Il primo ministro inglese Rishi Sunak ha dichiarato che la necessità di fare chiarezza su sesso biologico e genere percepito è diventata più pressante in seguito a un’autentica crisi costituzionale con la Scozia, che intendeva cavalcare alla grande il self-id facilitando il cambio anagrafico di sesso attraverso una semplice autodichiarazione che però il governo inglese sostiene essere in contrasto con l'Equality Act del Regno Unito (si tratta di una legge del 2010 che protegge legalmente le persone dalla discriminazione sul posto di lavoro e nella società in generale, nda). L’ipotesi scozzese prevedeva addirittura la cancellazione dell’atto di nascita. La premier scozzese, Nicola Sturgeon, su questa faccenda ci ha rimesso le penne, mentre Sunak ora sta sterzando. Primo punto su cui vuole fare luce: l’educazione sessuale nelle scuole.
Restando quindi nell’ampio recinto dei diritti individuali, crede, anche alla luce della parziale retromarcia britannica, che il self-id possa ancora essere considerato l’obiettivo definitivo delle attuali battaglie LGBT?
Non so cosa possa aspettarci. Però consiglio la lettura di un libro del 1982 – un anno di svolta, evidentemente – intitolato “Gender” (da noi tradotto come “Gender. Per una critica storica dell'uguaglianza”) in cui l’autore, Ivan Illich, prevede la nascita di un “neutrum econonicum”, ossia un cittadino libero da tutto, compresa la scelta del genere di appartenenza. Un cittadino funzionale a un capitalismo che ha bisogno di individui totalmente precari e totalmente slegati dalle loro radici e dai tradizionali contesti relazionali. Perfettamente usabili, quindi, per ogni scopo.
Voliamo in Spagna ora. Dove la conduttrice televisiva Ana Obregón, diventata madre a 68 anni utilizzando il seme del figlio morto (la bimba è quindi figlia e nipote contemporaneamente).
E no, non è la madre biologica! Ha commissionato una bambina di cui è la nonna. Si è trattato di un’operazione spaventosa. Io comprendo, e in questo sono vicina alla Obregón, la disperazione di una donna che perde il proprio figlio, ma l’operazione in questione è folle. In Spagna, poi, la maternità surrogata è vietata, come da noi. Bisogna passare per un tribunale per il riconoscimento del genitore intenzionale, ma in questo caso abbiamo una nonna intenzionale, una madre biologica che ha dato l’ovocita, una madre gestante e un padre deceduto. Mi auspico che quella bimba venga data in adozione, a meno che non la affidino alla Obregón medesima in quanto nonna, ma la bimba, sia chiaro, non ha né una madre né un padre.
Oggi, soprattutto mediaticamente, si è imposta un’immagine forte, magari non sempre corretta, del mondo arcobaleno. Chi c’è invece fuori da quell’area?
Mah, tante persone diverse. Ci sono i ben informati, ma sono pochi. Ci sono dei conservatori che schiacciano tutto, pigramente, sui valori della famiglia tradizionale. Ma ci sono anche dei semplici resistenti. Quasi degli istintivi che resistono all’idea di un orizzonte trans-umano. Il discorso dell’utero in affitto, ad esempio, oggi è molto più sentito di prima, le voci contrarie aumentano. Anche perché ormai i contenuti di certi contratti sono emersi e sono, sinceramente, ributtanti: la donna, ad esempio, dev’essere disponibile ad abortire se i committenti lo desiderano. Poi ci sono agenzie di maternità surrogata che offrono opzioni diciamo “deluxe”: se il bambino nei primi due anni dovesse morire, tu genitore avresti diritto, gratuitamente, a un altro bambino. Ben diversa è la questione che riguarda il cosiddetto “utero solidale” (tra sorelle, tra madre e figlia, o anche tra amiche, come è già avvenuto legalmente in Italia), dove tutto avviene entro i perimetri di una relazione amorosa, non improvvisata e senza scambio di denaro, che tiene insieme madre genetica, portatrice e creatura, come un tempo avveniva con madre, creatura e balia da latte.
La sua posizione e quella delle RadFem trovano oggi una collocazione politica ben definita?
No. Noi abbiamo iniziato anni fa un dialogo con la sinistra perché il femminismo, storicamente, è di sinistra e quasi tutte noi abbiamo storie ed esperienza a sinistra. Però dal Pd non abbiamo ricevuto altro che porte in faccia. Tante volte abbiamo chiesto udienza a Zan, Cirinnà, Letta, Zingaretti, ma non siamo mai state ricevute. Da quel momento con la sinistra abbiamo chiuso, un po’ come oggi sta capitando in Spagna, dove le femminste post-franchiste – addirittura anarchiche, socialiste, marxiste – si sono allontanate dalla maggioranza di governo Psoe/Podemos. In Italia non diamo indicazioni di voto ma guardiamo con interesse a ciò che ha in programma il governo Meloni. Ad esempio il cosiddetto concetto di “reato universale” (Fratelli d’Italia punta ad approvare una proposta di legge che rende la gpa – gestazione per altri – un reato universale).
Quindi partita totalmente chiusa col Pd?
Noi, in modo weiliano (Simone Weil, nda), cerchiamo nello scacchiere politico chi si fa portatore delle nostre battaglie. Se il Pd, folgorato sulla via di Damasco, proponesse la stessa legge, sosterremmo anche il Pd.
Quando ha ricevuto la prima sonora porta in faccia dai democratici di sinistra?
Da Enrico Letta. Essendo lui un cattolico democratico speravamo, ingenuamente, nel suo ascolto. Mai ricevute. Con molte donne del Pd, inoltre, avevamo legami personali, ma anche loro – eccezion fatta per Valeria Valente – ci hanno sempre negato un incontro in virtù del famoso principio del “nessun dibattito” tanto caro al trans-attivismo. Sono i principi di Dentons, che afferma di essere il più grande studio legale al mondo. C’è un approccio, delineato nel rapporto Dentons, che indica un modo soft di fare pressioni per ottenere le leggi e le politiche desiderate. Anche il Ddl Zan nascondeva il nocciolo duro di alcune proposte dietro a questioni più morbide e attraenti. Zan parlava molto della sacrosanta lotta alla discriminazione degli omosessuali, ma l’obiettivo era l’identità di genere.
E oggi, invece, qualche spiraglio con Schlein?
Non ho sottoscritto la famosa lettera delle cento femministe, ma mi piacerebbe parlare con lei. La conosco bene, da anni, l’ho vista crescere. Mi piacerebbe che mi interpellasse, ma non credo debba essere io, ancora, ad insistere. Schlein è una ragazza molto ambiziosa, destinata a diventare una protagonista della politica, mandata a studiare da vicino, negli Stati Uniti, le due campagne di Obama, esperienza preclusa a qualsiasi rappresentante, per quanto talentuosa, di una classe sociale meno agiata. È sempre stata pro-utero in affitto, anche in Europa. Il suo primo atto politico da segretaria del Pd è stato andare in piazza a Milano a sostegno delle famiglie omogenitoriali… Se volesse, noi siamo qui però.
Vi ascolta Giorgia Meloni, allora?
Beh, Meloni sì, ci ha ascoltato. Ci ha sempre seguito attentamente. La ministra Roccella è con noi da sempre, ben prima che diventasse ministra. A destra l’ascolto c’è, nell’area politica che per anni è stata la nostra culla no.
Torniamo, per chiudere, al “reato universale”: sarà questo, nel futuro prossimo, l’unico fronte aperto?
No, c’è anche quello relativo all’ormonizzazione dei bambini. In altri Paesi i nodi stanno già venendo al pettine (Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Olanda), mentre qui siamo indietro: non abbiamo numeri precisi relativi al numero di bambini trattati con i bloccanti della pubertà, quanti bambini abbiano intrapreso la terapia ormonale.