Le nomine Rai allarmano. Di che allarme si tratti non è chiaro. Alluvione, siccità, una guerra, un livello di tassazione immorale. La rete pubblica è ormai solo uno dei tanti canali di informazione, con l’unica reale differenza – rispetto ad altre – che viene pagata da noi volenti o nolenti. La competizione, per fortuna, ci regala altre alternative, talvolta migliori talvolta no. Con qualche bella e rara eccezione, come il caso di Monica Maggioni, la Rai non è quel faro che dovrebbe essere nella visione dei difensori del servizio pubblico. E non lo è da molto prima dell’arrivo di Giorgia Meloni. Ne parla anche Marco Travaglio nel suo editoriale al numero del 26 maggio de Il Fatto quotidiano. Potremmo sintetizzare la questione con le sue parole: “Renzi renzizzò, Draghi draghizzò, Meloni non melonizza”. La stampella dei governi di turno si è via via prestata per favorire la maggioranza del momento ma c’è chi, al solito, grida allo scandalo per le nuove nomine, tra l’altro più eque di quelle avute nelle legislature precedenti. Come ricorda sempre Travaglio: “Meloni dà 5 posti a FdI, 7 alla Lega, 3 a FI, 3 al M5S, ben 9 al PD. E fa meno peggio anche di Draghi, che riuscì nel capolavoro di regalare tre quarti della Rai al Pd che non ha mai vinto un’elezione da quand’è nato, di escludere dal Cda l’unico partito di opposizione (FdI) e da tutte le reti e i tg il partito di maggioranza relativa che aveva vinto le elezioni: i 5Stelle”. Ma Travaglio si sta melonizzando?
Ovviamente no. Sarebbe più probabile che Italo Bocchino votasse PD. Ma allora perché Travaglio sta difendendo Giorgia Meloni? Ci sono vari ingredienti: il solito antiberlusconismo e antirenzismo (a cui si aggiungerà una certa insofferenza per chi, direttore del nuovo Riformista, sta dettando una linea antitravagliana occupandosi più dei giornalisti de Il Fatto che non dei politici). Un pizzico di grillismo ormai impossibile da celare, ma anche un po’ di sano attaccamento alla realtà. Cosa che manca ai più, soprattutto a sinistra, in queste ore. Non solo, come ha sottolineato Travaglio, Renzi e Berlusconi (e Draghi) hanno fatto peggio, ma Meloni non ha scardinato nessun principio democratico o costituzionale. È la legge Gasparri (poi renzizzata) ad aver consegnato “al Parlamento e poi al governo un bene comune così prezioso che la politica non dovrebbe neppure sfiorarlo”, perdonando a Travaglio l’atto di fede nei confronti del concetto di “bene pubblico”, il trucco intellettuale che tiene in vita mostruosità economiche come la Rai e le compagnie di bandiera; e le strade che cedono, i ponti che crollano e così via. L’addio di Fazio non è un segnale preoccupante per la Nazione, ma una pura scelta di convenienza. Va dove si guadagna di più. Certo, credevamo che avrebbe fatto valere il diritto all’usucapione, magari mentre la signora Litizzetto annaffiava le sue radici a Rai3, ma così non è stato.
E lo stesso vale per Lucia Annunziata, le cui dimissioni magnitudo 8,4 della scala Richter (secondo solo a quelle di Bianca Berlinguer, nei tempi che furono) fanno sorridere chiunque abbia dimestichezza con un po’ di logica. Sì, perché le parole di Annunziata fanno il lavoro sporco per i suoi “avversari politici”, meglio di qualunque difensore d’ufficio del governo. Lei, infatti, scrive: “Arrivo a questa scelta senza nessuna lamentela personale: giudicherete voi, ora che ne avete la responsabilità, il lavoro che ho fatto in questi anni. Vi arrivo perché non condivido nulla dell’operato dell’attuale governo, né sui contenuti, né sui metodi. In particolare non condivido le modalità dell’intervento sulla Rai. Riconoscere questa distanza è da parte mia un atto di serietà nei confronti dell’azienda che vi apprestare a governare. Non ci sono le condizioni per una collaborazione dunque. E d’altra parte non intendo avviarmi sulla strada di una permanente conflittualità interna sul lavoro”. La più elementare delle analisi del testo fa emergere due elementi: primo, Lucia Annunziata se ne va perché in contrasto con l’operato del governo Meloni; secondo, Lucia Annunziata se ne va per evitare di essere in perenne conflitto. In altre parole, Lucia Annunziata ha dimostrato involontariamente che la Rai è l’organo stampa del governo in carica, tanto che se si è in contrasto con quest’ultimo è giusto dimettersi dall’azienda. Ma dov’era la serietà (ribadita nella sua lettera di dimissioni irrevocabili) fino a ottobre scorso, quando ha lavorato con gioia nella Rai dei governi Draghi e Renzi? In altre parole, ha lavorato in Rai fin tanto che la Rai è stata della sua stessa parte.
Non solo. Lucia Annunziata ha anche dimostrato che non ama dover lavorare in un contesto politicamente avverso. Quest’ultima è una scelta legittima, ovviamente (chiunque ha il diritto di decidere se il suo lavoro valga abbastanza da dover sopportare una direzione che non ci piace); ma è una sua scelta sua, non una colpa del governo. Questo dice molto di lei e molto poco dell’operato dell’esecutivo meloniano in Rai, che tanto non le piace. Sembra quasi che non vi siano le condizioni giuste per poter lavorare serenamente. Come se l'unico modo di lavorare bene sia che tutto giri come lei vuole. Per far sì che possa andare in questo modo, forse dovrebbe candidarsi alla presidenza del Consiglio.