«Alexa zitta!» esclama perentoria al telefono quando la chiamo. E poi precisa: «Scusami, ce l’avevo con la mia schiava». Ma quando risponde alle domande, anche le più scomode, lo fa con una educazione e una profondità rare, in particolare nel mondo dello spettacolo. Vera Gemma è così, un continuo contrasto. Pensava di essere brutta e schiere di uomini si sono innamorati di lei quando era spogliarellista. Si sentiva insicura e ha lavorato come domatrice di tigri e leoni. Era convinta che l’occasione nel cinema non sarebbe mai arrivata e ha vinto il premio come miglior attrice all’ultimo Festival di Venezia. Non con un film qualsiasi. Con una pellicola come "Vera" che ricalca fedelmente la sua vita. Non tutta, servirebbe una serie a puntate, il periodo nel quale – da figlia di una star come Giuliano Gemma – decise di uscire dal mondo patinato dove si sentiva rinchiusa per sperimentare la realtà, anche la più cruda, con la ricerca di uomini violenti, spesso delinquenti, le botte date e quelle restituite, i soldi sperperati e le delusioni patite. Non c’è rimpianto, però, nel suo racconto. E soprattutto non si riesce a distinguere la fiction dall’esistenza reale. Lei stessa sembra non averlo mai compreso.
In questa intervista ci ha raccontato perché non avrebbe mai voluto un film del genere (e alla fine lo ha fatto). La sua infanzia «troppo bella» sognando di diventare una diva, come quelle che frequentavano la casa di famiglia la domenica, mentre lei si sentiva brutta e inadeguata. L’adolescenza ribelle dove ha speso una fortuna e si è dovuta ricostruire con le sue sole forze. I provini per il cinema che puntualmente andavano male, anche a causa di quel cognome pesante. Il rapporto di “sorellanza” con Asia Argento e quella volta che inseguirono degli spacciatori e riuscirono a farsi restituire la refurtiva. Il desiderio di entrare nel mondo dell’hard accantonato per non dare un dispiacere ai genitori, ma anche l’incontro fulminante con Riccardo Schicchi che le disse: «Hai fatto qualcosa che solo Moana Pozzi avrebbe fatto». Ha risposto al presunto flirt con Giuseppe Cruciani e ci ha raccontato di quando cucinò una carbonara a casa di Quentin Tarantino. E di un rapporto con la morte piuttosto disincantato: «Non credo che esista. Mio padre me lo diceva quando mi lamentavo di come avrei fatto senza di lui: “Ma io sono immortale”. Un fondo di verità c’era».
Da dove nasce questo film così autobiografico?
Non sono pienamente responsabile della pellicola. Quando lavoravo al circo come domatrice di tigri e leoni ho conosciuto i due registi Tizza Covi e Rainer Frimmel ed è nata una amicizia. In particolare con Tizza, che ha iniziato a farmi tante domande, a venirmi a trovare a Roma e dopo un anno di frequentazione mi ha detto: «Sto scrivendo un film per te».
Come hai reagito?
Ho cercato di difendermi, perché mi sono sentita quasi tradita. Ecco perché era così interessata alla mia vita, ho pensato. Le ho chiesto cosa volesse raccontare e lei mi ha risposto: «Tutto! Il tuo senso di inadeguatezza, il non sentirsi abbastanza bella, i provini dove non ti prendevano mai, del ragazzo che ti ha addormentato per derubarti». Ero turbata. Sono una senza pudori, ma addirittura un film? Poi ho subito messo le mani avanti: «Guarda che non ho una lira per realizzarlo».
E lei cosa ti ha detto?
«Non voglio niente da te, ti paghiamo noi per farlo».
Com’è stato rappresentare in modo così vero e crudo la tua vita?
All’inizio lo vedevo come qualcosa che dovevo togliere dalle scatole. Un po’ mi ha aiutato il Covid che aveva fatto slittare le riprese. Sapevo che sarebbe stato un impegno enorme dal punto di vista emotivo. Mettendomi in gioco avrei dovuto spogliarmi nell’anima, che è peggio che nel corpo. Il resto è arrivato in modo naturale. Essendo girato in ordine cronologico, le mie emozioni, il mio vissuto, il rapporto con il bambino crescono via via. Alla fine non sapevo più qual era il film e quale la mia vita reale.
E ti è stato assegnato il premio come miglior attrice all’ultimo Festival di Venezia. Una bella rivincita per una che ha dichiarato: «Avevo rinunciato a essere attrice».
Ero consapevole del mio talento, ma erano gli altri che non mi davano mai una opportunità. Penso che la vita sia fatta anche di destino, quindi è inutile forzarlo. Alcuni motivi li capivo, ma non potevo aspettare il permesso dei registri per esprimere la mia forma artistica, per cui ho sempre trovato il mio modo di esserlo. È anche una forma di saggezza lasciar andare le cose come devono andare. Poi quelle migliori, come l’amore e come i film, arrivano quando meno te lo aspetti.
Se chiudi gli occhi, qual è il tuo primo ricordo da bambina?
Uno che mi commuove sempre. Mio padre che faceva questo gioco: chiudeva gli occhi e ci riconosceva dalle mani a me e a mia sorella. «Questa è Vera e questa è Giuliana» diceva. Gli chiedevamo come facesse e lui: «Perché tu Vera sei più morbida». Ci divertivamo un sacco.
Qual è invece il ricordo più doloroso della tua infanzia?
Il mio sentirmi costantemente inadeguata e diversa. Ero una bambina molto particolare. Ancora oggi sono fraintesa, la gente spesso non mi conosce per come sono davvero. A 10 anni avevo già letto tutti i libri di Moravia. Ero bramosa di letteratura. Leggevo tantissimo. L’unica che mi capiva era Asia Argento, leggevamo le poesie di Hermann Hesse e piangevamo insieme. Ero già molto intelligente e avrei voluto in qualsiasi modo far sentire la mia voce. Ma non ero considerata, perché la star di casa era il papà. Noi eravamo soltanto le figlie di Giuliano Gemma.
Da casa vostra saranno passati tantissimi artisti dell’epoca.
La domenica in particolare. Ci sfilavano di fronte le più grandi dive del tempo, come Ursula Andress, Edwige Fenech o Barbara Bouchet, ma anche registi come Sergio Leone con il suo tipico cinismo romano. Io osservavo soprattutto quelle donne meravigliose e pensavo che anch’io, forse, un giorno sarei diventata come loro. Infatti non mi sento per niente una anti-diva, ma una diva. L’ho desiderato tutto la vita! Ho avuto una infanzia troppo felice, infatti poi la vita è cambiata.
Sei stata una adolescente ribelle?
Ho iniziato a sentire un fortissimo dislivello tra il cinema e la vita reale. I giorni sul set con papà, le domeniche in questa villa meravigliosa con piscina e campi da tennis, non erano la vita vera. Fuori invece mi attraeva la realtà più cruda, della strada, della delinquenza. Andavo cercando un’altra verità, incontrando personaggi terribili che naturalmente si approfittavano di me perché non ero pronta. E i miei genitori erano preoccupatissimi, perché ero incontrollabile. Ma non poteva ridursi tutto al cinema e allo sfarzo. Volevo vivere la vita in pieno e ho sbagliato sulla mia pelle.
Perché sei finita a lavorare come spogliarellista a Los Angeles?
Quando è venuta a mancare mia madre, io e mia sorella abbiamo ereditato dei soldi. Io non avevo il senso di quanto valesse il denaro, perché la mia famiglia non ci viziava più di tanto, era tutto ponderato attraverso una educazione severa. In quel momento mi ritrovo a 20 anni con una grossa cifra in mano e nell’arco di un lasso di tempo piuttosto breve li ho bruciati tutti, me li sono fatti anche mangiare dagli altri. Mio padre mi disse: «Fai quello che ti pare, mettiti alla prova, perché da me non vedrai più una Lira».
Da lì ad andare negli Stati Uniti a fare la spogliarellista ce ne passa...
Intanto mi vergognavo a rimanere in Italia, dove non potevo più essere quella di prima. Nello stesso tempo ero molto forte, quindi con gli ultimi soldi me ne sono andata, ho trovato una ragazza con cui vivere, ho provato a cercare lavori come la cameriera ma non li ho trovati. Sembra facile, a me non mi prendevano mai neanche per quelli. Alla fine, un pomeriggio, vado in questo locale di cui mi innamoro. Già li adoravo nei film. Vedi che torna sempre il cinema?
C’è chi di fronte a certe cose si ferma e chi, come te, nel film ci si butta.
Il film sulla mia vita è Carlito's Way. Così ho pensato: questa è la mia vita, farò la spogliarellista. Sono giochi ai quali io gioco fino in fondo e diventano realtà, perché mi ci impegno. Ho fatto una audizione per questo locale, sono stata presa e guadagnavo tantissimo. All’epoca anche 1200 dollari al giorno. Mi ha dato la possibilità di mantenere un tenore di vita molto alto. Quel mestiere mi piaceva, sono andata anche a Las Vegas dove si guadagnava ancora di più.
Non ti sei mai sentita una donna oggetto?
Ma figurati. Io che fino a quel momento non mi sentivo abbastanza bella, con quel lavoro dove gli uomini mi veneravano mi sono sentita stupenda. Oggetto del desiderio! Per me era meraviglioso. Certo, un film non può durare per sempre. La cosa più banale sarebbe dire di essermi sentita usata. Invece avevo un potere enorme, le regole le dettavo io e gli uomini le rispettavano. Sei tu che usi loro, a partire dai discorsi in camerino. C’è un certo cinismo delle spogliarelliste verso gli uomini.
Sei femminista?
Le donne hanno fatto secoli di rivoluzioni che io onoro. Diritti ottenuti che non avevamo, dal voto all’aborto, sono tutte battaglie nobili. Ma non mi piace la prosopopea continua della violenza sulle donne. Se ne parla in ogni programma tv o articolo di giornale con dei discorsetti che lasciano il tempo che trovano. Parliamo invece di quanto sono difficili le leggi per arrestare le persone. Ormai le donne sanno che ci sono numeri da chiamare e che devono trovare il coraggio di denunciare, ma rimane grave la lentezza delle leggi quando qualcuno ti minaccia, ti segue, ti fa del male, ti vuole uccidere. Se non ti ha ferito, non c’è il sangue, non c’è un testimone non li arrestano mai.
Perché nel mondo dello spettacolo o della cultura non si insiste su questo tema?
Perché non lo conoscono. Preferiscono fare il loro monologhetto sulla violenza sulle donne e si sentono politicamente corretti e contenti. Mi fa un po’ schifo, non solo fastidio. Non se ne può più!
Credi che ci sia anche molto marketing intorno al famminismo?
Sono convinta che esista una componente di utilizzo di questo tipo di femminismo per fare spettacolo, rassicurare e omologarsi in una idea di salvatrici del mondo che fa molta scena, è accettata ed è incontestabile. Contestabile sono io che dico la verità, perché la verità dà fastidio.
Nel film definisci Asia Argento «una sorella». Cosa vi unisce davvero?
Il dolore di esperienze di vita fortissime. Lei ha perso sua sorella e io c’ero. Io ho perso mia madre e lei c’era. Io ho perso mio padre e lei c’era. Lei ha perso sua madre e io c’ero. Un dolore dietro l’altro dove noi eravamo sempre vicine. Tutti questi episodi, che non si possono dimenticare, come lo stare a casa una dell’altra per giorni finché non smetti di piangere.
Quando vi siete conosciute?
Io avevo 16 anni e lei 12. Allora la differenza era più grande, lei era una bambina e io una adolescente. Però capii immediatamente la genialità di Asia. Lei me lo dice sempre che sono stata la prima a capirla quando non la capiva nessuno. Quindi si è formato un rapporto fortissimo di due persone diverse ma che si somigliano su tante cose. Anche conflittuale, abbiamo litigato, ma alla fine ci perdoniamo tutto. È un rapporto basato sull’assenza di giudizio e tanta comprensione.
Ci racconti una follia che hai condiviso con Asia?
Ricordo quando giravamo il film Scarlet Diva e cercavamo degli attori per interpretare dei delinquentelli di strada dai quali andavamo a comprare il fumo. Abbiamo preso effettivamente dei ragazzetti dalla strada e loro la prima cosa che hanno fatto è stato rubare ad Asia il cellulare. Erano delinquenti reali, infatti erano giustissimi per il film.
E com’è finita?
Che li abbiamo inseguiti! Gli siamo corsi dietro e non so con quale maestria Asia è riuscita a strappargli il telefono dalle mani e siamo fuggite. Se lo è ripreso, incredibile. È stata più delinquente dei delinquenti. Più scaltra e più rapida. Non dimenticherò mai la disperazione di quando ce l’hanno rubato e le risate di quando lo abbiamo recuperato. Ne abbiamo vissute tante insieme.
Hai detto che con tutti gli uomini sbagliati che hai incontrato nella vita potresti girare una serie. C’è mai stato un momento in cui hai rischiato la vita davvero?
Più di una volta. Andavo proprio a cercare persone estreme. Ero attratta dalla delinquenza. Una volta ho conosciuto uno che non dormiva da venti giorni nello stesso letto perché ricercato. Un’altra mi sono ritrovata in un inseguimento con la polizia. Oppure c’è quello che mi ha addormentato e derubato, come si vede nel film. È tutto vero. Non mi sono svegliata per due giorni. Non so cosa mi ha dato da bere, potevo anche morire. Diciamo che Dio, o un angioletto, mi ha voluto bene perché ho messo la mia vita in pericolo più volte. Ma avrò un altro destino.
Ti sei pentita di quella vita?
Non ne vado fiera. Purtroppo ne ho avuto bisogno per capire tante cose, per diventare quella che sono e anche per essere brava in questo film. Se non hai vissuto non hai niente da raccontare. Se il dolore non ti appartiene come puoi trasferirlo? Ognuno ha il suo modo per viverlo.
Però hai raccontato che qualche uomo lo hai anche menano.
Sì, evidentemente l’assorbire tutta quella violenza ha fatto crescere dentro di me una certa rabbia che esce nei momenti più inaspettati. Mi è successo a mia volta di mettere le mani addosso ad altri, di essere cattiva, violenta, di non avere la pazienza di spiegare le cose e far emergere un aspetto irrefrenabile di cui io stessa mi stupisco.
Spogliarellista a Los Angeles, domatrice di tigri e leoni, ma al mondo dell’hard ci hai mai pensato?
Tantissimo, ma sapevo che non avrei mai potuto farlo finché mio padre era in vita. Per lui sarebbe stato un trauma. Non perché fosse un moralista, solo che avrebbe voluto altro per me. Era consapevole del mio talento. Pur essendo molto duro ha incoraggiato il mio teatro underground, quando mi scrivevo le mie opere e lui era sempre in prima fila. Una volta mi disse: «Sei più brava di me». Buttarmi nell’hard sarebbe stato un dolore ulteriore per miei genitori. Oltre a non onorare il nome di Giuliano Gemma. Però conobbi Riccardo Schicchi, un uomo intelligentissimo.
Cosa ti colpì di Schicchi?
Era affascinante e con una intelligenza rara. Passai una serata con lui e gli raccontai di aver fatto la spogliarellista a Los Angeles. Così mi portò in un locale gestito da lui in via dei Serpenti e mi disse: «Vai, spogliati». Non fece in tempo a finire la frase che ero già sul palco a interpretare uno spettacolo. Rimase scioccato e disse: «Hai fatto qualcosa che solo una persona al mondo avrebbe fatto ed è Moana Pozzi». Mi propose anche una serie di serate hard dal vivo strapagate.
Accettasti?
No, perché gli dissi: «Ma ti rendi conto la reazione che può avere mio padre?». E lui mi rispose: «La reazione di tuo padre è parte di questo business». In quel momento ebbi un po’ di timore e feci marcia indietro. Gli dissi che lo ammiravo molto e declinai l’offerta. Però il porno mi affascina. Quando c’è una intervista a una pornostar chi cambia canale? Nessuno, ma non lo ammettono. Ci piace capire come ragiona, come affronta quella vita, quanto le pesa e quanto le piace o meno.
Dopo la partecipazione al programma radiofonico La Zanzara si vocifera di un tuo flirt con Giuseppe Cruciani. Nella foto che hai postato sui social dove ti copri le parti intime con il suo libro in molti ci hanno visto una conferma…
Non è vero. Io e Giuseppe siamo amici. C’è grande intesa, in qualche modo ci somigliamo. Abbiamo recitato un personaggio ideale, che è quello che volevamo essere, e lo siamo diventati perché in parte lo eravamo. Abbiamo il senso della libertà e siamo politicamente scorretti. Trovo che sia coraggioso e sensibile. Lo adoro e lo considero un genio. Con quella foto ho scatenato una bomba, ma tra noi c’è solo una grande amicizia che vorrei durasse tutta la vita. Anche perché i flirt e gli amori finiscono, l’amicizia no. Sono molto più interessata al suo cervello che ad altro.
Tornando al cinema, Pierfrancesco Favino ha detto che i film italiani non sono più influenti come in passato. Secondo te come mai?
Meno male che lo dice Favino che lavora in tutti i film. Evidentemente lo dice perché lo pensa, visto che problemi di lavoro non ne ha. Purtroppo è vero. Infatti il nostro film sta uscendo in tutto il mondo. ma non è italiano perché è tutto austriaco.
Forse manca il coraggio nello scegliere le storie su cui puntare, come nel vostro caso?
Sì, perché è un film neorealista che racconta una realtà romana, ma che tocca corde più ampie. Tantissime donne si identificano nel mio personaggio, pur non essendo figlie di Giuliano Gemma, per il senso di inadeguatezza verso i loro padri. O per i rapporti sbagliati con gli uomini. E ancora il non sentirsi mai abbastanza belli in questa società che ti impone di essere figa su Instagram e nessun requisito intellettuale. Forse bisognerebbe tornare a storie che appartengono al vissuto, che toccano il cuore e l’anima, invece di realtà piccolo borghesi che non trovano l’universalità.
È vero che hai conosciuto Quentin Tarantino? È un cultore del cinema italiano, anche di quello di tuo padre.
Lui di me una volta ha detto: «Adoro questa donna perché non mi segue mai». Anche quando viene a Roma non ci vado. Non mi metto a inseguire le star. Magari quando arriva sono innervosita da una storia d’amore finita e quindi non me ne frega niente che Tarantino sia a Roma. Io ho sempre messo la vita davanti alle ambizioni. Però ho passato una serata bellissima a casa sua.
Questa devi raccontarcela.
Un giorno leggo sul giornale una sua intervista dove dichiara: «Se non ci fossero stati attori come Giuliano Gemma e Franco Nero, Hollywood non sarebbe la stessa». Sono impazzita, non potevo crederci. Allora mando un messaggio a un amico comune: «Digli a Quentin che voglio cucinare una cena italiana per lui». Non mi arriva risposta e penso mi abbia preso per matta. Dopo un mese mi arriva una mail: «Dinner date: Quentin non vede l’ora di conoscerti e ti aspetta a casa sua...».
E davvero sei andata a casa di Tarantino a cucinare?
Ma certo! Sono partita da Roma con il guanciale sottovuoto in valigia. A Los Angeles quello buono non si trova. Tra l’altro ho scoperto dopo che è un reato portarlo in aereo negli Stati Uniti. Però arrivo a casa di Quentin e gli cucino una carbonara. Aveva questi piatti un po’ smaccati in tavola, con sopra disegnati corpi di donne nudi di profilo. Alla fine esclama, con una faccia tristissima: «Mi hai fatto capire come ho mangiato male fino ad oggi». Ho avuto paura mi chiedesse di tornare tutti i giorni per cucinargliela…
Immagino che la serata non sia finita con la cena.
Poi siamo andati nel suo cinema privato a vedere i film di mio padre per tutta la notte. Pellicole che avevo già visto trenta volte, un po’ pesante, ma lui era eccitatissimo. Mentre li guardava mi teneva la mano ed è stato un vero signore, non ci ha neanche provato. Il giorno dopo me ne sono andata con la stessa adrenalina di quando per la prima volta sono entrata in una gabbia con i leoni e pensando che nella vita è davvero tutto possibile.
La tua vita, oltre a un film, meriterebbe una serie a puntate.
Chi mi conosce, dopo questo film, mi dice come mai non ho raccontato tante altre storie. Ma i registi non hanno voluto raccontare tutta la mi vita, solo alcuni episodi per far emergere la parte pura e innocente di Vera che nessuno conosceva.
Chi ha vissuto una vita intensa come la tua, che rapporto ha con la morte?
Ci penso continuamente. Quando l’hai vista, ti ci sei confrontata, hai perso le persone che amavi di più, acquisisci un privilegio: sai che la morte esiste. La maggior parte delle persone vive con la mancanza totale di questa coscienza e gli sembra lontanissima. Io sono cos’è, l’ho vista in faccia. Ho sempre pensato che non sarei invecchiata. Non mi vedo con i capelli bianchi di fronte al camino. So quasi per certo che morirò prima. Ma poi scusa, la morte esiste?
Hai prove del contrario?
Non credo che esista, ci sono tante cose che non spariscono. Mi sforzerò in qualche modo di lasciare un segno, perché se ci riesci non muori mai.
Come l’epitaffio scelto da Franco Califano: «Non escludo il ritorno».
Ma certo! Perché Giuliano Gemma è morto? Quando vedi in tv un suo film cosa pensi? Che è un eroe sempre vivo. Me lo diceva quando mi lamentavo di cosa avrei fatto senza di lui: «Io sono immortale». E rideva. Un fondo di verità c’era.