Dopo Indiana Jones, prosegue l'operazione nostalgia al Festival di Cannes. Sabato è stata la volta di The Killers of the Flower Moon, ultimo film di Martin Scorsese, fuori concorso, ma con i biglietti più ambiti (due soltanto, infatti, le proiezioni). Scritto in collaborazione con Erich Roth (Forrest Gump), il film è un ibrido - tra western, gangster, giallo giudiziario, dark comedy - old style per struttura e stile. Ipercitazionista ed elegantemente autocitazionista, basato su una storia vera (come direbbero gli anglofoni, un true crime), illumina le aree grigie e troppo inesplorate della fondazione degli Stati Uniti d'America.
L'accoglienza della stampa è stata unanime: standing ovation. Tranne un isolato Kevin Maher del Times che l'ha definito "a damp squid" (una delusione). La proiezione per la stampa? Un entusiasmo contenuto, forse dovuto anche alle tre ore e mezza che ai tempi di TikTok rischiano di essere percepite come cinquanta.
Ma c'è tutta la deferenza per un venerato maestro, una delle ultime leggende del cinema prima dello streaming, che la temibile critica Pauline Kael, ai tempi di Mean Streets (1973), riconobbe come custode di un nuovo, tutto americano, “senso del male”.
Il film si basa sull'omonimo bestseller di David Grann, in cui si ripercorre la storia degli Osage dell'Oklahoma, nativi americani che scoprono, dopo essere stati sfollati, che la loro nuova terra, arida e infelice, nasconde però il petrolio. Molto petrolio. Così, gli sfollati diventano ricchi. Molto ricchi. I bianchi si avvicinano, li corrompono, si presentano come amici. La ricchezza diventa, proprio come nel Petroliere di Anderson, l'inizio di un nuovo declino, sebbene dorato. Alcuni Osage iniziano a morire misteriosamente, spesso indeboliti da una strana "wasting sickness". Non si indaga, è difficile capire chi è la legge e chi il criminale, siamo nel Far West. Ma quando si verificano le prime vittime da arma da fuoco, la strana malattia assume la forma di una cospirazione di bianchi contro i nativi arricchiti.
Tuttavia il film si concentra più sulle dinamiche familiari e affini, su una storia d'amore a tratti inspiegabile, sui criminali che evocano i Good Fellas (il villain principale ha i modi e la mentalità del mafioso), e molto meno sulle indagini dell'appena fondato Bureau of Investigation di Hoover, l'FBI, come accade invece nel libro. Non è di certo una storia di salvatori bianchi pieni di buone intenzioni: i conquistatori, per lo più, contaminano e ingannano. L'FBI arriva, ma in ritardo. La medicina occidentale non aiuta, anzi, annienta e uccide.
"Ho voluto raccontare la storia dal punto di vista degli Osage", afferma Scorsese, eppure i protagonisti sono il boss William Hale (De Niro) ed Ernest Burkhart (Di Caprio), suo nipote, con una mandibola che ricorda molto il Brando de Il Padrino, ma del personaggio certo non ha altro. Ernest è, infatti, succube dello zio, non brilla per intelligenza, si potrebbe dire che "non è il coltello più affilato in famiglia". Ernest ama i soldi, le donne e il whiskey, ma non l'impegno. Quindi abbiamo la speriamo nuova stella del cinema (stava per abbandonare) Lily Gladstone nel ruolo di Mollie Kyle, discendente di una delle famiglie Osage più abbienti. Personaggio ambiguo, silente: una promessa di audacia mai veramente realizzata. Peccato.
"Ci si sente quasi in colpa a non unirsi al coro di ovazioni. Certo, è il film di un maestro assoluto del cinema americano e mondiale, con due attori principali che sanno più che il fatto loro, e che sono a loro volta dei miti di Hollywood, ma è anche maledettamente sovraccarico, così tanto da apparire spesso fuori fuoco.
Spiccano di certo i costumi e la messa in scena. È lì, nella forma e nell'estetica, il rispetto per una cultura sopravvissuta a un'ingiustizia terribile: i costumi, le coperte di rango esplosive, le posture silenziose, la lingua siouan. La mano di Jack Fisk è evidente. È stato il direttore artistico e scenografo de Il Petroliere e molti altri... capolavori.
Difficile dissentire dalla critica quando, quasi unanime, applaude al masterpiece per l'ultima opera di un venerato maestro. Difficile perché Scorsese è Scorsese, De Niro è De Niro, Di Caprio è Di Caprio. E la storia è preziosa. Ma forse è proprio la massima reverenza verso chi tanto ha fatto e tanto è stato amato a non permetterci di giudicare liberamente? Perché, se non fosse di Martin Scorsese, The Killers of the Flower Moon sarebbe davvero considerato un capolavoro?