Guido Meda è il nostro poeta preferito della guida old school, quella degna di essere chiamata tale. I suoi racconti divisi tra esperienza, ricordo e modernità, descrivono meglio di chiunque altro l'impatto delle nuove tecnologie sul rapporto, una volta intimo e viscerale, tra l'uomo e il motore. Ma non si tratta di condannare l'innovazione, soprattutto se, come dice Guido, ci salva il culo. «Alla festa di Scansano il parcheggio è un prato in mezza pendenza ed è caduta una pioggerella bastardina di fine estate che lo ha reso scivoloso. Serve un po’ di rincorsa per scollinare e venirne fuori. Ho lanciato bene la macchina, ho messo la seconda guadagnando quel tanto di trazione che mi serve. Va tutto bene; non fosse che a metà pendio, ben illuminati dai fanali, ci sono dei ciuffi di erba di finocchietto alti una quarantina di centimetri. La macchina li legge come ostacoli e per i fatti suoi tira un’inchiodata che mi rovina tutto. Fermo. Ci provo tre o quattro volte prima di neutralizzare la sua reazione e convincerla che tra l’erba di finocchietto si fa come dice il guidatore e non come vuole lei.» L’episodio apre il tema della convivenza tra esperienza del guidatore e intelligenza artificiale dell’auto. La macchina interpreta l’ambiente secondo sensori e algoritmi, mentre il conducente sa esattamente cosa fare. Qui il conflitto tra decisione umana e automatismi diventa evidente.

«Poco dopo, incrociando un’auto nella strettoia tra due muri di Pereta, rallento. È buio. In due ci passiamo serenamente. Non c’è nemmeno rischio che gli specchietti si sfiorino. Ma il giovane guidatore francese che viene dall’altra parte non ne vuole sapere: si ferma, si abbandona risoluto ai suoi sensori che suonano penetranti e garruli come un concerto di Jovanotti. I miei pure. Ok, ma ci stiamo! Fidiamoci, dico io, si vede che c’è spazio. E niente, lui sta a trenta centimetri dal muro, tutto dalla mia parte, e grida “ça ne passe pas!”. Oh, non c’è verso: i sensori vincono sul suo occhio, vincono su tutto. Perdo io, che mi faccio una retro, mi tolgo, lui passa e buonanotte. Dico anche delle cose poco carine.» Qui il tema si ripete, ma in un contesto differente: un’altra persona, inesperta o troppo fiduciosa nella tecnologia, subordina la propria percezione ai segnali della macchina. Per certi versi l’automatizzazione può limitare la flessibilità nella guida in situazioni reali, secondo Guido Meda, portando a un blocco del traffico. «Per uscire dal posto auto in ufficio so da anni che devo passare, in retro, rasente a un pilastro in cemento. Potrei farla ad occhi chiusi. Io. Lei, la macchina, invece no. Due volte su cinque all’avvicinarsi del pilastro fa come un gatto spaventato: drizza il pelo e, sbam, attiva la frenata di emergenza che blocca tutto. Poi mi comunica pure che ha evitato una collisione mica da ridere, che non ci sarebbe stata. A cinque all’ora.» L’episodio evidenzia come anche compiti ormai automatici per il guidatore possano diventare complessi per la macchina. L’IA si muove secondo criteri di sicurezza, senza memoria del contesto o capacità di giudizio basata sull’esperienza passata. «Non mi sono mai rassegnato alle telecamere per parcheggiare. Metto ancora il braccio destro a cingere il sedile del passeggero e prendo la mira voltando la testa all’indietro. Noi che abbiamo imparato così non sbagliamo un colpo. Ma quanti ce ne sono che si affidano solo alle grafiche della telecamera e agli strilli dei sensori? Che la fanno piano piano piano e mica sempre ci azzeccano? Uuuuuh…»

Qui si introduce un confronto tra generazioni di guidatori: chi ha imparato con metodi tradizionali e chi dipende quasi esclusivamente dall’auto. La tecnologia cambia la percezione del rischio e del controllo, e l’abilità personale viene messa in secondo piano. «Ecco, ci sono mille piccoli motivi per cui l’auto che prende il sopravvento fa incazzare. La vibrazione dello sterzo che resiste ai cambi di corsia è la più gettonata da tutti. La prima cosa che fanno i vecchi guidatori è chiedere: “Come si disattiva ’sta roba?”. Ok. Ma ci sono un milione di altri motivi per cui a questi aiuti, che anestetizzano un po’ le nostre competenze al volante e ci fanno tormentare da schermetti e cicalini, dovremmo accendere un cero al giorno. Più prosaicamente: ci salvano il culo. Non sempre, non subito, ma lo fanno.» Qui il racconto prende una piega più riflessiva: si riconosce che i sistemi di assistenza, seppur irritanti, offrono sicurezza. È un passaggio chiave che lega l’esperienza frustrante al valore pratico della tecnologia. «A fine luglio, in Sardegna, Giorgetto Giugiaro, uscito illeso dal botto del secolo con volo e capottamento, diceva: “Se fossi stato a bordo di un’auto di quindici anni fa, quando c’erano sette volte meno possibilità di sopravvivere, non sarei qui a raccontarlo”. Ecco, magari la macchina sbaglia davanti al finocchietto o nella strettoia di Pereta, ma sbaglia a nostro favore. È lì per correggere, non per far fare bella figura alla destrezza che avevamo maturato guidando una vecchia Golf prima serie.» L’esempio estremo di Giugiaro rafforza il concetto: gli automatismi possono correggere errori umani critici. La sicurezza diventa il parametro dominante rispetto all’abilità personale. «Se ci lasciamo rubare ore e concentrazione dal cellulare, non possiamo lamentarci se l’auto prende l’iniziativa quando magari stiamo guardando altrove. È il patto che abbiamo firmato con la modernità. Un tollerabilissimo frammento di libertà in cambio di un po’ di vita in più. Sta a noi decidere se viverla bestemmiando contro i cicalini nelle manovre a bassa pericolosità, o ringraziandoli sottovoce quando – spessissimo – ci restituiscono interi ai nostri affetti.» La conclusione sintetizza il compromesso tra libertà e sicurezza. L’aneddoto personale qui diventa una riflessione universale sulla guida contemporanea, dove la responsabilità e la tecnologia devono coesistere, che lo si voglia o meno. Altrimenti, c'è sempre il caro vecchio Pandino.
