“Lo so che non ha senso fare una outro perché nessuno oggi ascolta un disco fino alla fine. Grazie agli artisti che hanno partecipato a questo disco. Grazie a me stesso, che sono ancora qui. Vaffanculo. E non è facile”. Ma chi cazzo è Fabri Fibra? È la domanda che mi posi 15 anni fa, quando il rapper uscì nei circuiti mainstream con la sua “mangiavo lucertole aperte da ragazzino”. Me lo chiedo ancora oggi, che di anni ne ho 25, svaccato su una sedia di vimini in veranda, con la cuffia bluetooth e “Caos” (il suo ultimo album) a rotazione. Ho sempre snobbato il rap, avendo in fissa nella testa il culto dell’ostentazione che questo genere si porta dietro. Poi, mi fanno schifo i vestiti, le catenine, maglie larghe e cappellini da giocatori NBA. Mi fanno schifo i tatuaggi dei rapper, i loro ghigni, le movenze, gli anelli truzzi. Ci ho sempre visto una totale finzione in tutto questo. Tutto questo intinto da una mia personale abnegazione morale, che vuole una certa coniugazione tra vita ed estetica, che esige melodicità corpo a corpo alla profondità testuale: tutti canoni per me ravvisabili solo in sordina nel genere rap. Poi mi dico: ma io ascolto il rock, e da anni glorifico frontman che hanno scritto testi mediocri, che hanno perso ogni cammino di vita lasciandosi divorare dal baratro della dissolutezza. Mi accorgo quindi che il mio è un problema prevalentemente estetico. E siccome il rap non è nelle mie corde, tendo a sprezzarne tutti i contorni di aspetto e vita personale di interpreti e fruitori. Fabri Fibra è una grande eccezione in questo mondo.
Fabri Fibra il suo mondo lo trascende per metterti in discussione, ti lascia nella casella postale una lettera senza mittente: lascia stare la forma, questi sono i miei contenuti, sono quelli che valgono. E Fabri Fibra sa parlare dei suoi, di mondi, personali, e di quelli che viviamo tutti. C’è verità in quello che dice, si sente, ti immergi, e ti fa ridere e incazzare con lui. Non c’è bisogno di tante manfrine. Della sua vita privata sappiamo quasi niente, ci parla solo con la sua arte, rilascia poche interviste, si chiude per anni nella stanza a produrre; non ha bisogno certo di far uscire un singolo all’anno, di rincorrere la valanga di melma che ogni giorno ci propinano, che non riesci a distinguersi dalle pubblicità del Garnier e Loreal Paris. Pubblicare è ormai come pisciare la mattina, semplice e istintivo: ormai nemmeno ce ne accorgiamo più; è un continuo via vai di novità che del nuovo hanno solo il significante. Fibra accetta il lavorìo, il mal di stomaco, si prende una pausa, modifica, strappa, lacera, e poi sverna e dipinge. Dipinge pallottole, a 20 anni da “Turbe Giovanili”, dove il genio c’era già tutto, mastodontico. Pubblica “Caos”, un rigurgito di vita e di ricordi, di aspettative e di richiami passati; di odio e di amore. C’è tutto in questo album, dal semplice ripercorrere la scalata al successo, i sacrifici, e i vizi annessi. Quanto si fa schifo Fibra, applaude la sua vita con un ghigno autoironico, si guarda allo specchio e si riconosce solo per metà. Sembra che tutto sia venuto fuori per caso, che sia semplicemente in bàlia delle sue canzoni, che si guardi da lontano, lacerato e vittima di sé stesso. Uno specchio caotico, di sé, della società, della scena rap, dalla violenza domestica alla depressione, con la miriade di partecipazioni che questo album ospita, da Gué Pequeno a Neffa, fino a Francesca Michielin.
Cammina, nei video, in una sabbia che sembra non avere fine, con giunchi e qualche bozzo d’acqua a ristagnare, con i droni e le telecamere che gli ruotano attorno. Guarda spesso in basso: come a voler bilanciare i propri passi, a misurarli e per capire se abbiano il metro giusto, se ci sia bisogno ancora di allungare i ritmi; quasi a non voler rimirare il mare, o l’orizzonte in fondo al cielo. È il cammino di chi ha la testa altrove, di chi riflette e non guarda a direzioni, a strade già battute, a sentieri che incanalino il caos. E c’è poco futuro in questo disco. È tutto fermo all’oggi e a quello che siamo stati, a chi è stato Fabri Fibra e (forse) vuole continuare ad essere. Ma è giusto fermarsi, anche se camminiamo, anche se appariamo frenetici di fronte al mondo, o vogliamo apparire tali. Bene, è proprio questo Fabri Fibra, un maestro che smaschera ogni identità, che ti pone in dubbio proprio quando mette in dubbio sé stesso. E se c’è un lume, in questo buio, è la sua musica. Come richiamo, l’intro di Gino Paoli che è un eprigramma: “Senza musica probabilmente non sarei niente/Ti giuro, non saprei che fare senza lei/Se l'hip hop fosse una donna, le direi/Quando sei qui vicino a me/Questo soffitto viola, no, non esiste più/Io vedo il cielo sopra noi”.