A Torricella Peligna, dal belvedere a quasi mille metri sul livello del mare, si può scorgere l’Adriatico. Di fronte a questa suggestiva veduta, il giornalista Fabrizio Gatti ha risposto alle nostre domande, partendo dal motivo che lo ha spinto fin lassù. E cioè l’assegnazione del Premio alla carriera John Fante, durante l’omonimo festival dedicato al grande scrittore americano il cui padre era originario proprio di questo piccolo Comune della provincia di Chieti (Abruzzo). La motivazione, redatta dalla scrittrice Melania Mazzucco - vincitrice della scorsa edizione - recita: “In incognito, sotto falso nome, spogliandosi della propria identità e realtà per comprendere quella degli altri – gli sfruttati, gli schiavi, gli ultimi – il giornalista Fabrizio Gatti ha attuato, nelle sue inchieste, il mestiere dello scrittore, immergendosi, non solo metaforicamente, nelle vite altrui. E ha saputo poi raccontarle in libri vibranti di indignazione, impegno e pietà, capaci di scuotere le coscienze. In particolare, con Bilal (2007) ha scritto l’Odissea dei migranti del XXI secolo”.
Libri come naturale prosecuzione delle sue inchieste, che dal 2004 realizza per l’Espresso dopo aver lavorato anche al Giornale (di Montanelli) e al Corriere della sera, da vero e proprio infiltrato sulle rotte dell'immigrazione irregolare dall'Africa all'Europa, come sul caporalato nell'agricoltura e nell'edilizia, sulle scarse condizioni igieniche negli ospedali o sulla corruzione negli appalti pubblici. Fino al tema dei temi di questi ultimi due anni, la pandemia, con il volume “L’infinito errore”, dove, in 600 fitte pagine documentatissime fa comprendere al lettore tutte le opacità del regime cinese e le omissioni dell’Occidente – compresa l’Italia – nel contenimento del virus.
Ne abbiamo approfittato per parlare di questo e molto altro: dalla questione afghana - nella quale non crede alla definizione dei nuovi talebani “moderati” - alle operazioni (illegali) della CIA nel nostro paese che ha raccontato in “Educazione americana”, così come del rischio censura di alcune multinazionali (“sono nella black list di Google”) fino a un consiglio per i giovani giornalisti che vorrebbero intraprendere la strada delle inchieste: “Dimenticate i tweet, la realtà è molto più complessa e va studiata e raccontata con tutte le parole necessarie”.
Partirei dalla motivazione del Premio alla carriera John Fante. Ti riconosci?
Per me è una grande emozione essere a Torricella Peligna e associare il mio lavoro alla testimonianza e ai libri straordinari di John Fante, così come a quelli di Melania Mazzucco, la quale ha saputo arrivare al cuore dell’attività che ho svolto. Cioè quella di poter raccontare la realtà standoci dentro, in modo che immagini ed emozioni che con i nostri sensi percepiamo diventino in seguito parole. Quello che ricordo sempre alla fine di una inchiesta è la paura di perdere le parole e la fatica di scriverle scegliendole con cura nel grande bagaglio che ho raccolto. È un premio di cui sono orgoglioso, un benvenuto nella comunità degli scrittori e arrivare dopo Melania Mazzucco e Sandro Veronesi è una grande responsabilità e una spinta a continuare.
Come ha scritto Melania Mazzucco, il tuo lavoro si è spesso concentrato sugli gli sfruttati, gli schiavi, in generale sugli “ultimi”. Chi sono oggi queste persone?
Non credo di aver raccontato soltanto gli “ultimi”, ma in generale la nostra realtà che è fatta di tante persone e, come spesso accade, da sfruttati e sfruttatori. E aver tollerato negli ultimi 20 anni lo sfruttamento ha allargato la popolazione degli sfruttati. Quindi, se proprio vogliamo identificare gli “ultimi”, visto che non ci sono più solo gli ultimi arrivati nel nostro paese, esistono ora tanti italiani che a loro volta sono sottoposti a un processo di emigrazione che purtroppo dura da molti anni.
L’8 agosto è stato ricordato il 30ennale dello sbarco degli albanesi a Bari. Tu hai raccontato quel periodo nel libro del 2003 “Viki che voleva andare a scuola. La storia vera di un bambino albanese in Italia”. Allora, però, il nostro paese era in larga parte accogliente, cosa è cambiato nella percezione delle persone?
L’Albania è la dimostrazione di un modello che funziona. Se oggi ci si può muovere senza pericolo tra i due paesi è perché è stato consentito l’accesso attraverso documenti legali. Quell’episodio ha rappresentato uno dei finali della divisione tra blocchi dell’Europa, dove l’unico modo per entrare in Italia era attraverso le navi o i gommoni. Ma aver istituito degli ingressi legali e investito con operazioni italiane in Albania, ha reso oggi la vicinanza con gli amici albanesi un fatto normalissimo. Questo modello non è stato applicato con i paesi africani o del Medio Oriente. A distanza di anni, sui flussi verso l’Europa e l’Italia che vengono dall’Africa, purtroppo non si è voluto guardare a quel modello.
E quale modello è invece stato applicato?
Ancora oggi siamo a dibattere se sia meglio pagare tangenti attraverso l’intelligente alle organizzazioni criminali per impedire che le persone partano, come hanno fatto i governi di centro sinistra, oppure bloccare le persone sulle navi di soccorso, come hanno fatto quelli di centro destra. Nessuno, però, ragiona sull’affrontare la questione migratoria all’origine e in modo radicale, andando a investire là dove i flussi migratori cominciano.
Flussi migratori che hai vissuto in prima persona per quattro anni, raccontati nel libro “Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi” (2007). Rispetto ad allora è cambiato qualcosa?
La situazione è identica, tanto che “Bilal” è un libro ancora di estrema attualità. Anzi, oggi quel percorso ha una ulteriore difficoltà, data da organizzazioni criminali e terroristiche che impediscono a ficcanaso come me di andare a guardare cosa accade. Quel periodo fu una finestra di pace che mi permise di attraversare quel percorso nel deserto del Sahara che ho avuto la fortuna di sfruttare fra il 2003 e il 2007, ma oggi per una persona con la pelle chiara come la mia sarebbe particolarmente pericoloso. Già allora rischiai un sequestro e adesso non ci sono più le condizioni per rifarlo. La mancanza di osservatori esterni rende tutto più difficile. È grave che non sia cambiato nulla.
Di chi sono le maggiori responsabilità?
Di una potenza culturale e internazionale come l’Unione europea che non è in grado di avviare soluzioni alternative nei luoghi d’origine. Premesso che il soccorso è obbligatorio e non è in discussione, servono più investimenti e più Ong che lavorino in quei luoghi avviando percorsi educativi, formativi, alternativi alle rotte migratorie, affinché le persone non abbiano bisogno di attraversare il deserto, perché quando ci sono in mezzo perdono ogni libertà ed è già troppo tardi.
In queste ore tiene banco l’Afghanistan, con una emergenza sanitaria che sembra di difficile soluzione. C’è chi ha parlato del più grande fallimento americano nelle missioni all’estero.
Gli Stati Uniti e le forze alleate hanno perso in Afghanistan nel 2003, quando la presidenza Bush decise di attaccare l’Iraq senza alcuna motivazione, visto che quel paese non aveva legami con l’attacco subito l’11 settembre 2001. Fino a quel momento l’America aveva il supporto di tantissimi governi musulmani, che in seguito hanno preso le distanze e l’Occidente ha perso la possibilità di contenere la diffusione di un pensiero razzista, terroristico e oscurantista come quello talebano. È una sconfitta culturale, prima che militare. Ed è la seconda, dopo il mancato contenimento della pandemia provocato dai silenzi e dai depistaggi di una dittatura feroce come quella cinese.
In base alla tua esperienza, ti fidi dei nuovi talebani “moderati”?
Non ho mai avuto l’occasione di lavorare in Afghanistan, ma ho avuto contatti con chi ha operato in quei luoghi e questa idea che siano diventati moderati è soltanto una follia diffusa e creduta dall’amministrazione Trump, che ha affrontato la sua presidenza con la totale semplificazione del mondo. È chiaro che gli Stati Uniti non erano più in grado di sopportare le perdite in Afghanistan e in Iraq e sono stati i cittadini americani a chiedere un ritiro, con la conseguenza inevitabile che stiamo vedendo, ma la caccia porta a porta delle persone libere è inaccettabile. Perché non sono solo quelli che erano schierati con le forze occidentali, ma ci sono anche tanti afgani che avevano sfruttato questa finestra di libertà per studiare e migliorare le proprie condizioni di vita. La conoscenza è la prima nemica di un regime come quello talebano.
In “Educazione americana” hai invece raccontato la storia di una squadra clandestina della CIA, al servizio del governo degli Stati Uniti per condizionare le democrazie in Europa. Esiste ancora qualcosa del genere e ha una influenza sui nostri governi?
Gli Stati Uniti in questa fase storica hanno il grosso problema di non voler agire come forza internazionale. “Educazione americana” racconta di una attività criminale della CIA in Italia e in Europa, quindi dalla parte del male e non del bene. In questo momento, però, se vogliamo parlare alla nostra democrazia italiana, ci sono tanti figliocci di quel periodo, ma sono cittadini italiani che lavorano nell’ombra. Gli americani hanno grane ben più grosse a cui badare, come per esempio il cercare di smantellare la rete di intelligence cinese. La sua principale potenza antagonista è anche una dittatura e questo la rende particolarmente pericolosa. Ma bisogna fare una precisazione…
Quale?
Che dobbiamo ritenerci fortunati di aver avuto come alleato gli Stati Uniti, perché nonostante i crimini della CIA, ogni quattro anni in quel paese c’è una elezione e la speranza che qualcosa possa cambiare. Se invece vogliamo stare, come il governo precedente, sotto l’ombrello cinese, allora ci toccherà il presidente Xi Jinping a vita, per cui non resta che augurarci buona fortuna.
La Cina, però, da quanto emerge dal tuo libro, ha grandissime responsabilità nel mancato contenimento del Coronavirus. Nel leggere “L’Infinito errore” (La Nave di Teseo), sembra di essere proiettati nella serie Chernobyl andata in onda su Sky. Hai avuto la stessa sensazione scrivendolo?
Intanto grazie per il paragone, perché ritengo il racconto di Craig Mazin straordinario nella ricostruzione.” L’Infinito errore” è un patto con i lettori, in una epoca di tweet e concetti semplificati al massimo, che accettano un libro di 656 pagine. La pandemia è un fenomeno complesso e proprio la semplificazione estrema non ci ha dato la possibilità di cogliere i pericoli quando eravamo in tempo per contenerla. È stata una sfida e sono orgoglioso che i libri siano ancora un luogo in grado di difenderci da questa corsa a ridurre e semplificare i concetti ben al di sotto della comprensione della realtà. Purtroppo, la politica comunica attraverso mezzi di informazione semplificati come i social e il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Per rimanere solo agli errori compiuti in Italia, sono due i momenti chiave che hanno permesso la diffusione del virus. Entrambi, sembrano dettati da una certa sudditanza nei confronti sempre della Cina.
Sì, e queste due decisioni spiegano il perché sono stati proprio gli italiani a cadere per primi in Europa nelle fauci di questa pericolosa epidemia. La prima il 13 gennaio 2020, quando il governo di Giuseppe Conte firma un accordo con la Cina per il raddoppio immediato dei voli turistici, che passano da 54 a 108 a settimana. Un provvedimento firmato dall'allora ministro dei trasporti Paola De Micheli. La seconda, il 4 febbraio, quando a fronte della richiesta di quarantena da parte di alcuni governatori di regione per le persone che rientravano dalla Cina, una basilare misura di profilassi internazionale, il premier Conte risponde che la situazione è sotto controllo, che ci dobbiamo fidare degli esperti, ma soprattutto che non possiamo mettere in pericolo gli interessi dei nostri imprenditori in quel paese. Quando un capo del governo fa queste dichiarazioni, mentre a Wuhan già si moriva di Covid, significa che ha perso la totale libertà di decisione nei confronti del nuovo protettore internazionale, e cioè il regime cinese.
Ma nel tuo libro segnali che, oltre all’ex premier Conte, le responsabilità sono diffuse su quasi tutto l’emiciclo parlamentare.
In questa alleanza, dopo tanti anni di “educazione americana”, possiamo comprendere il Pd, il M5s, Leu e anche la Lega, che con la Cina stretto solidi interessi economici tramite i suoi governatori. La soluzione non è fare la guerra alla Cina, ma pretendere dal Parlamento che indaghi su quello che è accaduto. Purtroppo, però, la decisione della Camera di limitare la futura Commissione di inchiesta al periodo antecedente al 30 gennaio 2020 e ai fatti accaduti nei luoghi d’origine della pandemia è ridicola e farsesca. Immagino, visto che non ce l’ha fatta l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), che ci riescano i nostri parlamentari a essere ammessi nell’istituto di virologia di Wuhan per scoprire quello che è accaduto. Sembra di rientrare nelle pagine di Ennio Flaiano o John Fante.
Il problema è che questa è la realtà e ha un impatto sulla vita delle persone.
Infatti, potremmo riderci sopra se non ci fosse nulla da ridere visto che ci sono migliaia di morti che pretendono, se non quella giudiziaria, almeno la verità storica di quanto è accaduto. E in questa fase la raccolta dei documenti, via via eliminati e nascosti, dovrebbe essere affidata a una autorità importante. Invece i parlamentari hanno scelto di fermarsi a 22 giorni prima della scoperta della pandemia in Italia. È come se la commissione sul sequestro Moro si fosse fermata a 22 giorni prima del rapimento, ci sarebbe stata la rivolta di tutti quelli che hanno lottato affinché venisse fatta luce sulla verità. Per la pandemia, questo non accadrà. E visto che spenderanno 180mila euro, se queste sono le premesse, potrebbero almeno destinare quei soldi a scopi più utili.
Hai fatto emergere i rischi di una influenza cinese sul mondo, ma sempre con “L’Infinito errore” ne stai sperimentano una forse ancor più inquietante come l’essere finito nella black list di Google.
Racconto anche questo, il contesto è importante per capire cosa è accaduto. Mentre in Cina il regime opprime il libero pensiero, noi che non patiamo quella condizione siamo comunque sottoposti al controllo e alla censura di certe multinazionali. Quindi il libro è finito nella black list perché non avrei trattato l’argomento pandemia con la dovuta “sensibilità”. Ho sempre cercato di raccontare informazioni verificate, il discrimine è se fossero vere o false. La sensibilità non compete ai giornalisti, tanto meno agli scrittori. Ho dato un nome alle cose e forse Google non ama che venga fatto, promuovendo una nuova forma di comunicazione attenta a non disturbare lo stomaco delle persone. Però il mio libro non disturba lo stomaco, ma la ragione perché dimostra che la pandemia poteva essere contenuta. I lettori hanno dato una grande risposta, condividendo con me il lungo il viaggio del virus dalle grotte infestate di pipistrelli ai laboratori cinesi fino alle nostre case.
Nei momenti particolarmente delicati della storia ci si interroga sul ruolo del giornalismo, in particolare di chi va sul campo per raccontare ciò che accade, ma non è raro sentire commenti del genere: “Se la vanno a cercare”. Cosa pensi quando giudizi del genere?
È un punto di vista disgustoso. Ci sono lavori ben più pericolosi del giornalista, che però non ottengono la dovuta attenzione. Basta guardare ai tanti morti sul lavoro, come nei cantieri edili o in fabbrica. Nessuno ha il coraggio di dire “se la sono andata a cercare”, per cui questo rispetto andrebbe rivolto anche ai colleghi e agli operatori che a vario titolo si sono trovati in pericolo o hanno pagato con la vita per il loro lavoro. E, tra l’altro, nell’esercizio di un articolo della nostra Costituzione, il 21, che sancisce il principio della libertà di informazione.
Dal 1987 al 1990 hai scritto per Il Giornale di Indro Montanelli. Come vivi le polemiche postume che, ciclicamente, esplodono intorno alla sua figura?
Giudicare la storia e le persone che l’hanno vissuta stando con il sedere al caldo è sempre sbagliato. Bisogna vivere quegli anni. Di Montanelli ho apprezzato l’indirizzo di rigore, soprattutto nel linguaggio. È una persona che negli anni della Prima Repubblica e degli accordi sottobanco si è sempre preso la libertà di criticare e di mettere alla berlina quello che stava accadendo, a differenza di tanti altri. Come giornalista è un aspetto estremamente positivo, una eredità che ci ha lasciato a tutti noi, come a chi come me ha avuto la fortuna di lavorare accanto a lui.
Cosa ti ha insegnato Montanelli?
Quell’esperienza, prima di tutto le basi. Se dopo diversi anni ho scelto di attraversare il Sahara per raccontare l’epopea dei migranti che cercano di arrivare in Europa è anche grazie a una figura come quella di Montanelli, che mi ha trasmesso un esempio di estrema libertà di pensiero. Il suo passato giovanile è una realtà storica, ma la storia va studiata e giudicare situazioni di quel periodo con i parametri di oggi è troppo facile. Io sono orgoglioso di avere un nonno schierato contro quel regime. Ma nel momento in cui la guerra è finita e c’è stata una riconciliazione, Montanelli ha avuto un ruolo fondamentale nella Repubblica e oggi si sente la sua mancanza. Anzi, ne approfitto per ringraziare i colleghi del Giornale, dal capocronista Giuliano Molossi al vice Ugo Savoia ad Alessandro Giglioli che era con me in redazione e poi ho ritrovato a L’Espresso, per quell’insegnamento di libertà e rigore che mi hanno trasmesso.
Oggi che con gli smartphone e i social sembra non sia più necessario andare sul posto, cosa consiglieresti in un tweet a un giovane giornalista che vorrebbe realizzare delle inchieste?
Di dimenticare i tweet, perché la realtà è molto più complessa e va studiata e raccontata con tutte le parole necessarie.