“Ciao, dammi del tu”. Peter Gomez è da anni il direttore del Fattoquotidiano.it, oltre a essere uno dei migliori giornalisti italiani e autore di libri (d’inchiesta) bestseller, ma il suo approccio è sempre quello del cronista di razza: pochi fronzoli e dritto al punto. E, vista la sua esperienza, dopo avergli chiesto cosa ne pensa del caos in Lombardia sulla distribuzione dei vaccini, non si è sottratto anche a tante altre domande che, solitamente, la maggior parte degli intervistati vorrebbe conoscere in anticipo. Solo a una non ha voluto rispondere. “I giovani giornalisti più promettenti? Ce ne sono due al Fatto, ma non farmi fare nomi che poi è un casino”. Comprensibile. Su tutto il resto, invece, nessuna remora. Così come non ha mancato di criticare Andrea Scanzi per aver reso pubblica la sua vaccinazione: “Siamo giornalisti: troviamo e commentiamo notizie, non siamo noi la notizia”.
Molti si sono stupiti che non abbia difeso un collega del suo stesso giornale, ma lui ci ha fatto notare che ultimamente non era d’accordo neanche con Marco Travaglio: “Sul governo avevamo idee opposte, ma è proprio questa la forza del Fatto: rispetto a tutti gli altri non siamo in una caserma”. E così, mentre sui ritardi del sistema di vaccinazione “le responsabilità sono tutte politiche” e infatti “in Lombardia Fontana non lo faranno ricandidare” anche dal cambio al governo Conte-Draghi non ha visto innescarsi sostanziali miglioramenti: “Quasi nessuno, né sui vaccini né sui ristori che invece sono più bassi”. Lo abbiamo poi sollecitato su Matteo Renzi: “Non ricordo un politico che abbia dilapidato un tale consenso in così poco tempo” e su Silvio Berlusconi: “Non provo nostalgia. È stato un ‘corruttore’, ma il tempo ridimensiona tante cose”. Così come su un suo possibile cambio di giornale dopo tanti anni: “Ho rifiutato la direzione del Tg1 e mi piacerebbe anche dirigere il Corriere o Repubblica, però l’ostacolo è sempre il solito: non sarei mai così libero come sono adesso”.
Direttore, dall’avvicendamento al governo fra Giuseppe Conte e Mario Draghi è cambiato qualcosa sul fronte delle vaccinazioni?
No, si è smosso poco o niente. Lo ha ammesso lo stesso Draghi quando ha fatto il suo appello alle regioni per sollecitarle a rispettare quanto stabilito. Quando è andato via Arcuri si facevano 200mila vaccini e ad oggi se ne fanno 240mila circa. Ma obiettivamente non si smuoverà niente di rilevante finché non arriveranno davvero tanti vaccini.
Però sembra che, anche con quei pochi che abbiamo, le differenze di efficienza fra regione e regione siano particolarmente accentuate.
È innegabile che ci siano regioni più organizzate e regioni meno. Fra queste ultime la Lombardia, inutile girarci intorno se la confrontiamo con il Lazio. E poi c’è stato un problema di fondo: quando Astrazeneca è arrivato in Italia era concesso fino ai 55 anni, quindi sono saltate fuori le famose categorie. Ma poi l’età si è alzata ai 65 anni e ora sembra che aumenterà di nuovo. Questo ha causato disagi enormi. Inoltre, nessun governo può autorizzare la centralizzazione della gestione, perché la clausola che dà potere alle regioni è in Costituzione. Però è innegabile che sia necessario un coordinamento. A questo punto, però, non è ancora cambiato nulla.
La Lombardia è dal primo giorno il fronte più caldo. Di chi sono le responsabilità per gli errori che sono stati commessi?
Gli errori politici sono moltissimi, la cronaca lo dimostra. Per esempio, a un certo punto si disse che la Lombardia avrebbe fatto un accordo con Poste per usare la sua piattaforma. Ma Poste fece presente che non era in grado di aggiornarla sui desiderata della Regione. A quel punto cambiarono rotta dichiarando di voler utilizzare Aria (Agenzia regionale per l’innovazione e gli acquisti, nda), ma a sua volta non aveva un sistema a disposizione per fare questo tipo di attività. Nonostante ciò, invece di organizzarsi con Poste o di costruire una piattaforma con Aria, hanno deciso di partire lo stesso per non rimanere indietro rispetto ad altre regioni e i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. Queste sono responsabilità politiche, perché se si sono trovati a riempire dei fogli Excel, come ho letto, è evidente che qualcuno a monte doveva informarsi prima. E in base a quello che puoi fare seguono gli annunci pubblici, non il contrario.
Pensi che il governatore Attilio Fontana si ricandiderà?
Non lo faranno ricandidare. Mi sembra evidente. Adesso viene sostenuto perché sarebbe controproducente per la Lega lasciarlo solo, ma per molti motivi ha fallito. E dico purtroppo, perché io abito in Lombardia e sarei stato felice che non avesse fallito. Anzi, i primi due mesi non ero così critico verso di lui, perché mi ero reso conto che ci era piombato addosso uno tsunami. Qualcosa di veramente impressionante. Ma il grave è accaduto dopo, quando abbiamo perso mesi in regione con decisioni sbagliate. Dalla piattaforma per la prenotazione dei vaccini, al Piano della mobilità che puntava a riaprire scuole, negozi e uffici e invece a settembre-ottobre non era ancora pronto e si sono trovati a dire “oddio e adesso come facciamo?”, senza contare la miriade di messaggi contraddittori che hanno lanciato.
La politica, ancora una volta, non si è distinta per efficienza e lungimiranza?
Uno dei pregi di questo governo, che gli va riconosciuto, è che avendo dentro anche Lega e Forza Italia almeno ci sta risparmiando una serie di polemiche surreali a cui assistevamo su ogni provvedimento di Conte. Questo però ha anche dei difetti, perché nessuno ha ancora detto una parola sul fatto che i sostegni arriveranno in ritardo e saranno inferiori ai ristori precedenti.
Ora si è infilato nel cul-de-sac dell’amicizia con Bin Salman, considerato il mandante dell'omicidio del giornalista Kashoggi. Ma ricordi un politico che, come Matteo Renzi, ha dilapidato un enorme consenso politico in così poco tempo?
Effettivamente no. Ho letto de L'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, ma non ero ancora nato (fu fondato nel 1946, nda), ma non credo avesse un consenso così ampio. La parabola di Matteo Renzi ha qualcosa di straordinario per quello che era riuscito a fare e ora è anche molto triste.
Che effetto ti fa, invece, vedere Silvio Berlusconi sempre più defilato e indebolito dall’età. Dopo tante battaglie, provi forse un po’ di malinconia? Cerco di essere obiettivo. Tutto quello che ho scritto su Berlusconi era vero, però dal punto di vista politico, sia per l’età che per la consistenza attuale del suo movimento, alcuni dei problemi strutturali che rappresentava per il nostro paese stanno venendo meno. Il famoso conflitto di interessi esiste ancora? Non ho particolari simpatie per lui, ma quando passerà a miglior vita, e spero il più tardi possibile, credo che larga parte di quei problemi verrà a mancare. Il tempo chiude tante cose.
Lo riabiliti sul piano storico?
No, perché resta il fatto che per tanti anni è stato un ‘corruttore’ di questo paese. Non perché pagava qualcuno, ma rispetto ai modelli dell’etica pubblica che ha diffuso. Molti si sono lamentati di Trump, ma moltissime cose simili le aveva già fatte Berlusconi nel suo periodo d’oro. La gente purtroppo dimentica in fretta. Ora dicono anche che Umberto Bossi è diverso da Matteo Salvini, ma io i manifesti contro gli stranieri me li ricordo anche della Lega Nord bossiana, così come tutto quello che dicevano contro il Sud. Ma adesso non vedo tanti diavoli in giro in politica, ma gente che va a caccia di consenso. È comunque un guaio, perché pensano solo alle elezioni e non al bene del paese.
Torno sul tema dei vaccini e ti lancio una provocazione. Se fosse successo in un’altra testata giornalistica, forse il Fatto quotidiano avrebbe titolato: “Volano gli stracci fra Gomez e Scanzi”. Mi riferisco al caso aperto dalla sua vaccinazione. Esagero?
Ma no, io ho solo affermato un principio. Ci sono cose che la legge consente di fare e Andrea mi pare abbia seguito la legge, fino a prova contraria, ma non per forza sei tenuto a farle. Io mi sarei comportato in maniera diversa. Non avrei fatto il vaccino o, se lo avessi fatto, non lo avrei pubblicizzato. Siamo giornalisti e possiamo trovare notizie, commentarle, ma non trasformarci in notizie noi stessi. Possono diventare dei simboli per la vaccinazione il presidente della Repubblica o Lukaku, se decidono di prenderlo come testimonial, ma non noi giornalisti. Comunque, non è la prima volta che in questo giornale la pensiamo in maniera diversa.
Per esempio, su cosa non ti trovi sempre d’accordo con la linea editoriale?
È capitato più volte, anche recentemente. Per esempio, io e Marco Travaglio, che siamo due direttori diversi, abbiamo sostenuto posizioni differenti su questo governo. Io ero convinto che dovesse nascere, perché non potevamo permetterci di andare a elezioni durante una pandemia. Lui invece la pensava in maniera diversa, in particolare sull’ingresso del M5s nel governo. Ma proprio per questo è un giornale che in confronto agli altri non è una caserma.
Negli altri giornali i giornalisti non sono liberi?
Basta ricordare qualche mese fa quando tutti ci raccontavano che sarebbe arrivato Draghi e con la sola l’imposizione delle mani avrebbe risolto tutti i nostri problemi, creando delle aspettative enormi e quindi correndo il rischio di enormi delusioni. Tutti insieme lo hanno sostenuto all’unisono. E adesso, dove sono finiti? Come tutti i paladini del Mes, che sostenevano fosse un dibattito ideologico. Ma chi applicava l’ideologia in realtà erano loro, infatti Draghi ha detto la cosa più ovvia: noi quei miliardi non saremmo stati in grado di spenderli nel giro di così poco tempo e quindi sono soldi che sarebbero stati buttati. Adesso se lo dici vieni definito “pragmatico”.
Dicci la verità, nonostante abbiate scritto insieme libri di inchiesta diventati bestseller, fondato Il Fatto e condotto insieme una miriade di battaglie, c’è qualcosa che non sopporti di Marco Travaglio?
Nulla, però ha delle cose che gli invidio. Una mostruosa capacità di scrittura e il suo temperamento che lo porta ad avere molte più certezze di me. Forse perché io vengo dal giornalismo investigativo. L’essere sicuro di sé è un vantaggio, perché il pubblico chiede certezze, non dubbi. Sono caratteristiche che vorrei avere anch’io, ma non farmi apparire come invidioso…
Passati quasi dodici anni, Il Fatto quotidiano lo ritieni ancora il progetto editoriale più interessante in circolazione, o ne vedi altri nuovi che stanno facendo bene?
Ce ne sono di belli in giro, però sono ancora piccoli. Tpi (The Post Internazionale, nda) è un buon progetto. Ma noi siamo stati bravi ad allargarci alla Tv e con la casa editrice ai libri. Siamo ancora “piccoli” rispetto ad altri, ma riusciamo a resistere in un sistema dominato da alcuni colossi. Noi sul sito avevamo l’obiettivo di diventare più grandi possibile, perché in quel momento storico c’era il rischio che il mercato avrebbe fatto fuori proprio i più piccoli, ma ora che Google e Facebook forse hanno deciso di pagare le notizie agli editori potrebbero cambiare molte cose. Diciamo che, comunque, siamo diventati abbastanza grossi da pensare che è difficile buttarci giù.
Chi sono i giornalisti giovani più promettenti?
“Ce ne sono due al Fatto, ma non farmi fare nomi che poi è un casino (ride, nda). Ci sono bravissimi giornalisti in qualsiasi giornale. Anche in quelli con le linee editoriali peggiori. Non bisogna confondere le testate con i colleghi. Io ne leggo di bravi in qualsiasi giornale o ne vedo in qualsiasi televisione o sito. Spesso i più bravi fanno poca carriera, ma questo è un altro discorso.
Dopo tanti anni, persino Cristiano Ronaldo ha cambiato squadra e a breve lo farà anche Messi. Ma Peter Gomez non ci ha mai pensato di andare a lavorare altrove?
Se avessi abbastanza libertà, andrei ovunque. Solo che finché avrò tanta libertà al Fatto non succederà. Ho rifiutato la direzione del Tg1 tre-quattro anni fa, perché il problema era proprio quello. Non poteva esistere che mi mettessi addosso una casacca di partito, nello specifico quella del governo gialloverde. Ma anche di qualsiasi altro colore avrei detto di no. Per anni avevo chiesto una Rai libera dai partiti e non potevo far finta di essermi dimenticato tutto. Però, cavoli se mi sarebbe piaciuto fare il direttore del Tg1. Così come mi piacerebbe fare il direttore del Corriere e di Repubblica. Ma la domanda è: con gli editori che hanno quei giornali, credi possa avere tutta la libertà che ho in una società editoriale come il Fatto? La risposta è no.
Si torna ancora alla libertà dei giornalisti.
Quando sento i colleghi di altre testate che mi dicono “noi siamo liberi” gli rispondo: “Ma dai, ragazzi, non raccontatemi puttanate”. Ho lavorato con editori di tutti i tipi e, certo, puoi rifiutarti di fare cose che non ti vengono chieste in maniera diretta, ma se le fai avrai determinate possibilità di fare carriera. Così funziona il sistema. Come è evidente che ogni editore ha il diritto di scegliersi, non un direttore che obbedisce, ma un direttore che la pensa esattamente come lui. Solo che prima succedeva molto meno, perché con i giornali gli editori guadagnavano un sacco di soldi. Adesso, invece, con i giornali ci perdono e i direttori sono meno liberi.
Un esempio?
Quando lavoravo a l’Espresso, che era una macchina da soldi, Claudio Rinaldi era molto libero, anche se poi andava d’accordo con Carlo De Benedetti che era il suo editore. Però portandogli tanti soldi, la sua libertà era sicuramente maggiore rispetto a chi adesso di soldi ne porta pochi o ne fa perdere.
Un consiglio a un giovane giornalista che vuole emergere?
La competenza è utile, il senso della notizia lo puoi acquisire, ma diciamocelo: guarda Cristiano Ronaldo, c’è gente che si può allenare tutta la vita ma non diventerà mai come lui. Così anche nel giornalismo. Comunque, il mio consiglio è di non avere paura. Non bisogna diventare dei rompicoglioni, ma essere disposti a fare delle battaglie su alcuni principi rispetto ai quali non si è disposti ad arretrare. Il rischio è duplice. Da una parte, nel 99% dei casi farai poca carriera. Però se ti guardi intorno, noti che chi ce l’ha fatta, a parte quelli che leccavano il culo all’editore, è tutta gente che ha avuto il coraggio di andare controcorrente.
Giornalista d’inchiesta, scrittore, direttore. Peter Gomez si sente realizzato?
Ma no, è impossibile! A volte sono felice, ma realizzato no. Le cose che hai fatto, poi te le dimentichi. È come nello sport. Dopo che hai vinto a cosa pensi, alla vittoria o alla prossima partita? Io penso ancora alla prossima partita.