Questo è il primo romanzo di Stefano D’Andrea, anche se si tratta del settimo libro nel suo curriculum, che vede fra le altre cose l’insegnamento in università e la scrittura per la radio. La nota biografica c’informa che vive felice sostenuto da Jung, e questo ci fa piacere, perché se Giorgio – il protagonista di Mai sulla bocca (Baldini+Castoldi, 2022) – è il suo alter ego, allora lo vorremmo come amico. La parola che affiora più volte leggendo il romanzo, non nella storia ma nella testa di chi gira le pagine, è finalmente. Finalmente un autore che sa spargere l’autoironia con naturalezza, che monta una storia su più piani che scorrono senza far sentire gli stacchi. Finalmente uno stile che viaggia in modo intelligente, a volte provocatorio, ma sempre aperto e mai supponente. Finalmente un narratore è lì con chi legge, come se gli stesse accanto e gli raccontasse le cose in diretta, senza un filo di affettazione. Il protagonista suscita un’empatia naturale che è invidiabile, bisogna ammetterlo: Giorgio deve svolgere per l’università una ricerca etnografica sul mondo della prostituzione, e per farlo dovrebbe adottare il metodo della osservazione partecipante, ossia inserirsi nelle azioni e relazioni osservate per viverle in diretta e poterle riportare con la consapevolezza massima, nel cosiddetto giornale di campo. Ma, trattandosi di situazioni così delicate, il compito appare decisamente complicato, per cui deve arrangiarsi.
Già a pagina 26 vediamo il protagonista nell’abitacolo dell’auto, con le verze che si mettono a lavorare nell’intestino proprio in un momento delicatissimo della vita, ricordandogli quando anni addietro a La Paz, in Bolivia, aveva commesso la follia di tracannare coca-cola senza rendersi conto che a quell’altitudine le bolle diventano bombe atomiche che quasi mandano all’ospedale. A pagina 33 c’è la prostituta brasiliana che dà una breve lezione di vita: “Fare l’amore è bello, da noi si fa tanto, anche perché non ci sono tante altre cose belle gratis. E poi così gli uomini non hanno tanta voglia di andare con le ragazze più giovani. Se vedi che il tuo uomo si guarda tanto in giro va bene, è normale, ma se poi ogni tanto non torna a casa metti da parte i tuoi pensieri e, senza dirgli niente, per due o tre giorni dopo cena fagli un pompino. Questo vorrei dire alle mogli di quelli che vengono qui. In quella nave le ho viste le donne italiane, erano tutte nervose. Quelle che avevano bambini parlavano solo con loro, e le capisco perché anche io ho una figlia e facevo così, e sbagliavo. (…) Quelle donne che invece erano in coppia erano sempre vestite bene perché le donne italiane sono molto eleganti, ma secondo me non fanno tanto l’amore. Se sei su una nave col tuo uomo che ti ha portata devi scoparlo finché non ti chiede pietà. È così che facciamo con i nostri uomini in Brasile”.
Più avanti è Giorgio a fare considerazioni più che condivisibili, per chi approccia un mondo ancora sconosciuto: “Gisela mi aspettava da McDonald’s perché aveva detto che voleva prima conoscermi e capire se poteva fidarsi. A me era parso comprensibile. Cioè giusto incontrarsi in un luogo pubblico per fare un’intervista con uno sconosciuto. Anche se in effetti rimaneva un tema aperto, che non avrei trattato certo con lei, e cioè: apri la porta serenamente a uno sconosciuto che viene per (come minimo) farti bere il suo sperma dopo averti sodomizzata, ma non si sa mai chi incontri quando uno ti vuole solo parlare?”. In effetti, come dargli torto?
Giorgio ha un amico, Marco, col quale si confida regolarmente, e qui si producono elucubrazioni filosofiche da sballo, come stando davanti a bicchieri di birra o di vino o a una canna. A pagina 60 arriva la escort da night club: una gigantessa romena di due metri vestita di strass, dall’eloquio più preciso e spigliato del laureando che prepara la tesi. Ma ancora prima, in un’altra situazione, una collega aveva chiarito una cosa fondamentale: “Un cazzo è un cazzo ma una bocca è una faccia uno sguardo e un’anima, un cazzo è una cosa. Una faccia è una persona e io non bacio le persone. E poi se baci un cazzo lui sta lì fermo senza espressione al massimo diventa più duro, mentre se baci una bocca quella bocca ti bacia a sua volta, muove le labbra e la lingua, senti il suono delle parti bagnate e i mugolii del piacere. Sono cose troppo intime”.
Ma sentiamo Yulia, la russa simpatica non troppo alta (così non lo sovrasta), che non afferra le domande retoriche: “«Ci sono degli uomini che mi chiedono se possono stare lì a guardarmi il buco del culo», mi ha detto spostando i capelli da sinistra a destra. «Chiedo scusa?» «Ci sono degli uomini che mi chiedono se possono stare lì a guardarmi il buco del culo»”. E poi esamina il contenuto della borsa di lavoro di Giorgio: «Gli uomini in Russia girano con il portafoglio in tasca e le chiavi della macchina in mano, qui avete tutti uno zaino o una borsetta, voglio sapere cosa ci tenete. Fazzoletti? Vedo un blocco di carta. Crema per le mani. Penne e matite. Una sciarpa. Una cuffia. Una copia di un libro a fumetti. Caramelle balsamiche. Una bustina con dentro medicine. Caricatore del cellulare. Calze di ricambio. Monete. Un computer. Occhiali da vista. Occhiali da sole. Bottiglietta d’acqua. Un uomo russo con questo zaino partirebbe per le vacanze».
Il modo di narrare a balzi conservando la sensazione fluida, senza mai spezzare, è la piccola magia del romanzo, dove Giorgio passa dal presente al ricordo collegando ogni pensiero. A pagina 97 la sua formazione adulta entra nel “giallo”: «Luisa è incinta ma io sono sterile, come la mettiamo?». E qui si cambia marcia, entrando in una specie di dimensione aumentata. Bella la soggettiva multipla che sviluppa un piccolo episodio urbano: il vigile, la straniera delle pulizie, lo stronzo qualunque, il vecchio, il focomelico, tutti coi loro punti di vista che vanno a formare l’azione, come nel montaggio di un film.
A pagina 136 incontriamo Michela: “è una giovane signora dai modi gentili, la pelle chiarissima, la voce bassa e la stretta di mano come quella di un cadavere di lumaca. Ma quando solleva e sposta una poltrona per farmi sedere vicino alla finestra sembra un camallo del porto di Genova. Non so mai dove cominci la bella e finisca la bestia, in certe donne. Come in mia mamma: ciò che di più dolce sia mai esistito sulla Terra ma anche la belva più oscena, tutto l’Amore immaginabile infinito ma anche il Male più assoluto e senza spiegazioni. Michela è la prima prostituta che mi fa pensare al fatto che queste persone, che io «osservo a fini di ricerca», possono anche essere delle madri. Me ne accorgo dalla sicurezza con la quale aggiusta i cuscini sul divano, una sapiente manualità con la quale potrebbe aver cambiato dei pannolini, ma anche dalla cura metodica con la quale mi offre dei generi di conforto”.
Il protagonista, naturalmente, per trovare le professioniste adatte per le interviste deve consultare i siti specializzati in rete: come “Gnoccaforum”, dove i frequentatori fanno le recensioni come si fa coi ristoranti, ovviamente usando nickname (vedi “Tromba Volante”). Insomma, Mai sulla bocca è un libro godibile, fatto bene, che rinfranca. Gli unici appunti che segnaliamo sono di carattere tecnico: a pagina 25 si scrive “bagnasciuga” per indicare la battigia, ed è l’errore frequentissimo di molti scrittori, giornalisti eccetera, al punto da esser quasi passato all’uso comune: ma a noi continua a non piacere, anche considerando che battigia è una parola bellissima che non merita l’oblio. La seconda cosa che può infastidire è l’espressione “talmente tanto” (pag. 128) e “talmente tanta” (pag. 200). Il motivo è semplice: il suono è brutto e va corretto, o eliminando uno dei due termini oppure sostituendo talmente con così. Per il resto non vediamo difetti degni di nota, per cui l’autore è promosso: “visto, si legga”.