Salvatore De Chirico è il regista Never Too Late, la nuova serie disponibile su RaiPlay ambientata nel 2046, in un pianeta che soffre per la mancanza di ossigeno e in cui la natura è vietata alle persone al fine di poterla curare. Un ragazzo che si è mostrato ai microfoni di MOW con delle parole buone, ricche di speranza, positive di fronte a una società allettata dall’ansia e dall’angoscia di un futuro sporco, corrotto e senza alcuna possibilità di redenzione. Come abbiamo imparato dalla chiacchierata con Salvatore, forse dovremmo ricordare più spesso a noi e agli altri che, invece, in mezzo a tutta questa discarica, un modo per ripartire e rigenerare il domani esiste. A partire dai ragazzi, a partire dai loro genitori. Ecco l'intervista esclusiva a Salvatore De Chrico.
Salvatore, dal 22 novembre è disponibile su RaiPlay la serie che hai diretto, dal titolo Never Too Late. Partiamo dal titolo: non è mai troppo tardi per cosa?
Non è mai troppo tardi per agire, per cambiare, per sperare. Con Never Too Late volevamo, già dal titolo, trasmettere come affrontiamo un mondo ecodistopico ed ecologista, un tema ancora poco esplorato in Italia. È un'operazione diversa rispetto ad altre produzioni. Il nostro mondo non è post-apocalittico, non è ridotto a macerie e disperazione. Abbiamo immaginato una proiezione avanti nel tempo, neanche troppo lontano: il 2046. È una Sardegna segnata da un collasso ambientale, ma non così distopico rispetto alla realtà attuale. Oggi vediamo già i segnali di questo collasso: ogni anno si registrano le estati più calde, i dati parlano di un aumento delle temperature entro il 2030. Insomma, il quadro climatico è molto grave e le politiche per contrastarlo dovrebbero essere molto più ambiziose. In questo mondo di Never Too Late però, abbiamo scelto di rappresentare una natura separata dall’uomo per permettere la sua rigenerazione. È un’idea che riecheggia le dinamiche vissute durante la pandemia, quando ci siamo ritrovati in lockdown e il mondo sembrava trasformato.
Come vivono i protagonisti in questo futuro?
I protagonisti sono adolescenti tra i 17 e i 20 anni, figli dei Fridays for Future di oggi. Non sanno cosa sia la natura. Immagina di eliminare dai tuoi ricordi un bagno al mare o un picnic sotto gli alberi. Tutto questo per loro non esiste più. Non l’hanno vissuto. È un contesto estraniante, in una sorta di lockdown all'aperto, ma anche qui l’essere umano cerca di andare avanti. Non volevamo raccontare un mondo spacciato ma neppure una visione idilliaca. Questi giovani si innamorano, affrontano ansie e speranze, trovano un modo di vivere nonostante tutto. Abbiamo voluto raccontare questo mondo con autenticità, senza visioni idilliache o apocalittiche, esplorando invece come si sopravvive in un ambiente, per certi versi, così trasformato e archetipico. Questo senso di vuoto e desolazione, questo ci interessava esplorare insieme al peso delle scelte. Dei giovani e delle responsabilità delle generazioni precedenti, come quella dei loro genitori. Voglio sottolineare però una cosa. Never Too Late è una serie carica di speranza. Anche dal punto di vista etico, come regista, autore, non possiamo consegnare a un pubblico così giovane e affamato di vita un mondo in cui non c’è più speranza.
Hai accennato alla responsabilità della generazione dei padri verso quella dei figli. Come si riflette questo tema nella serie?
Il presente si può leggere sempre a ritroso. A inizio Duemila sentivi parlare del "mondo che avremo lasciato un giorno ai nostri nipoti". Ecco, c’è stata un’accelerazione gravissima con continue impennate sul mondo. Il grande tema di Never Too Late è proprio la responsabilità intergenerazionale. La generazione degli adulti, per troppo tempo, ha considerato il cambiamento climatico un problema lontano, astratto. Quello che è cambiato oggi è che questa questione oramai ci riguarda tutti. I ragazzi del 2024, grazie all'accesso alle informazioni e a una maggiore sensibilità, sono visti come la speranza del futuro, come quelli che ci salveranno. Eppure è un errore deresponsabilizzare gli adulti. Serve un lavoro culturale per far capire agli adulti che devono agire insieme ai giovani. Esiste la metafora dell'albero madre che si basa su studi che dimostrano come gli alberi siano interconnessi tra loro, creando una rete che li collega. Lo stesso vale per noi esseri umani: sembriamo individui isolati, ma in realtà siamo profondamente connessi. Escludere gli adulti dalla soluzione è sbagliato. Al contrario, dobbiamo costruire un dialogo generazionale, dove i giovani, con la loro consapevolezza, possano guidare gli adulti verso il cambiamento. Lasciare tutto il peso sulle loro spalle è un atto egoista e ingiusto. Abbiamo bisogno che loro ci prendano per mano per insegnarci come si può fare a cambiare un po' le cose. Siamo abituati a vedere il mondo in un modo manicheo, o si salva tutto o niente, eppure una soluzione sola non esiste. Secondo una nota attivista, esistono soluzioni a livello di politiche economiche altre su basi quotidiane, e tra queste mille soluzioni, una sei tu.
Come mai avete scelto di girare in Sardegna?
La Sardegna ha la dimensione di un villaggio e di un'isola. Dal punto di vista cinematografico non è troppo raccontata nella sua eterogeneità. È una terra sia generosa che ostile.
Negli ultimi anni abbiamo visto molti film e serie che affrontano temi apocalittici o legati all’ecoansia. Siccità di Paolo Virzì, Te l'avevo detto di Ginevra Elkann e ora Megalopolis di Francis Ford Coppola, l'unico con un messaggio di speranza. Come si posiziona la vostra serie rispetto a queste narrazioni?
Questa scelta nasce da due ragionamenti. Primo, di natura produttiva grazie alla straordinaria opportunità che ci ha dato RaiPlay non volevamo certo scimmiottare produzioni americane di fantascienza distopica senza una certa cultura cinematografica. Questo non era il nostro intento. Secondo, ci siamo chiesti cosa potrebbe accadere se ci fosse un collasso ambientale. La nostra serie, pur trattando un tema così complesso, offre una speranza. Si distingue dalle classiche distopie puntando su un futuro in cui, dopo il collasso ambientale, la tecnologia non è fatta di macchine volanti o invenzioni futuristiche. È un mondo dove si rielabora ciò che già esiste per ottimizzare le risorse, rifacendosi ai principi delle 3R: Reuse, Reduce, Recycle. L’idea non è tanto guardare avanti con tecnologie iperavanzate, ma ripensare il passato in modo pragmatico. Personalmente, questa riflessione è nata durante il Covid: dopo quel periodo di isolamento, avevo un forte bisogno di contatto fisico e reale, non più di comunicazioni virtuali. Abbiamo immaginato quindi un mondo in cui i protagonisti vivono in piccole comunità, come villaggi, e riscoprono il piacere della condivisione analogica.
A chi vi siete ispirati?
Abbiamo lavorato molto sul senso di isolamento e su una dimensione quasi suburbana. Tra le ispirazioni principali ci sono stati: il lavoro di Spike Jonze con gli Arcade Fire per The Suburbs e il videoclip di Romain Gavras Atena Entrambi evocano un non-luogo emotivo, fatto di malinconia e connessione umana. La discarica, presente nella nostra serie, è una metafora del mondo passato in cui i protagonisti si ritrovano: un luogo di rifiuti, ma anche di risorse da reinventare. Qui i ragazzi si relazionano, creando un legame emotivo che supera la tecnologia.
Qual è il messaggio principale che vuoi trasmettere con Never Too Late?
Che non dobbiamo mai perdere la speranza. Anche in un mondo complesso e difficile, l’essere umano trova sempre un modo per andare avanti. Questa serie è un’avventura, un racconto che fa ridere, piangere, riflettere e che vuole offrire una prospettiva di speranza, soprattutto alle nuove generazioni, perché hanno il diritto di credere in un futuro migliore e la possibilità di costruirlo.