Cosa si prova a scomparire in un’epoca di iperconnessione? Per Violetta Bellocchio, scrittrice, giornalista e traduttrice, eclissarsi è stata una scelta di sopravvivenza. Dopo un’aggressione sessuale subita nel 2018, ha premuto il "pulsante" e ha cancellato ogni traccia della sua vita pubblica dando vita a un alter ego, Barbara Genova. Con questo nome ha vissuto e lavorato per due anni, lontano dai riflettori e dalla lingua madre, lasciandosi alle spalle il clamore e il peso del giudizio sociale. Ora, con il nuovo libro Electra (Il Saggiatore), rompe il silenzio e torna a rimettere ordine in quello che ha vissuto. Il romanzo è un viaggio profondo e a tratti doloroso nell’identità, nella rinascita e nella complessità di esistere in un mondo che spesso non perdona: "Non potevo più essere quella di prima, perché il mio corpo non era più quello di prima", ci ha spiegato in questo intervista, dove riflette sull’esperienza della violenza subita e sul percorso che l’ha portata a denunciare: “Descrivere ciò che era successo, tornare sul luogo dell’aggressione, affrontare la visita ospedaliera: ogni passo è stato un test emotivo”. Ma è stata anche una sfida burocratica e linguistica: “Il poliziotto che scriveva il verbale ha aggiunto cose che non avevo detto. Mi sono trovata a correggere il testo come se fosse un articolo, chiedendo di usare termini diversi. È paradossale, ma anche questo fa parte del processo”. Nonostante le ombre, Electra sembra la celebrazione di una rinascita: “Ho dato fuoco a tutto quello che avevo e ho imparato tutto quello che dovevo imparare” ha aggiunto l’autrice, che ci ha spiegato chi era e chi è diventata: “Barbara mi ha permesso di essere irreperibile, di vivere a porte chiuse, ma è stata anche il ponte verso la Violetta di oggi”. Emerge poi il confronto tra l’arte e la vita privata, con un trascorso familiare segnato da figure celebri: “Crescere in una famiglia di artisti ti dà molto, ma può anche essere ingombrante”. E tenendo fede a quello che disse lo zio Piergiorgio (“nella famiglia Bellocchio non esistono ruffiani”), sul cinema ci sorprende: “I film di Bertolucci hanno una dimensione epica e poetica che mi travolge, il lavoro di Marco (il regista Bellocchio, nda) è spigoloso, asciutto, così Bernardo ha una qualità lirica che mi parla di più”.
Partiamo dalle basi: ti devo chiamare Violetta Bellocchio o Barbara Genova?
È una bella domanda. Diciamo che ci sono persone che mi hanno conosciuto negli anni in cui usavo lo pseudonimo Barbara Genova e che non hanno mai smesso di chiamarmi così. Un amico molto intimo, ad esempio, mi ha detto: "You’ll always be Barbara to me". Per lui sono rimasta Barbara, come se fosse un’etichetta indelebile. Allo stesso tempo, oggi mi trovo in una situazione ibrida. Chi mi ha conosciuto più recentemente mi chiama Violetta, mentre altri, anche dopo che ho ripreso il mio nome di battesimo, continuano serenamente a usare Barbara. È interessante come in Italia certe abitudini restino radicate. Perfino il tabaccaio del mio quartiere ha continuato a chiamarmi Barbara dopo che gli ho spiegato cos’era successo. Direi che per ora mi trovo bene con entrambe le identità.
Perché hai scelto lo pseudonimo Barbara Genova?
È stata una decisione molto personale e, devo dire, azzeccata. Ho dato fuoco a tutto quello che avevo e ho reimparato tutto quello che dovevo reimparare. Adottare uno pseudonimo mi permetteva di lavorare "a porte chiuse". Scrivere come Barbara Genova mi dava un senso di libertà totale. Non dovevo rendere conto a nessuno, non c’erano aspettative legate al mio cognome. Potevo concentrarmi sulla qualità di ciò che producevo, senza pressioni esterne. Ero molto a mio agio in quella modalità. Mandavo un testo in lettura, e se non piaceva semplicemente andavo oltre. Era una condizione che mi dava serenità mentale e mi ha insegnato tantissimo sulla disciplina creativa. Quando scrivevo sotto pseudonimo, ero responsabile al 100 per cento del mio lavoro.
In passato il cognome Bellocchio ti ha mai condizionata?
Sicuramente sì. Il mio cognome mi ha aperto alcune porte all’inizio della carriera, ma spesso queste opportunità non erano basate sul merito. Mi sono resa conto che i lavori più piccoli, quelli che mi hanno valutata solo per le mie capacità, mi hanno insegnato molto di più. I "no" che ho ricevuto sono stati spesso delle benedizioni. Mi hanno costretta a crescere e a migliorarmi. Devo dire, però, che all’inizio ci sono stati anche momenti in cui il cognome mi pesava, perché il mondo dell’arte può essere un ambiente pieno di aspettative, dove è facile litigare su cosa sei in grado di fare o non fare.
Crescere in una famiglia di artisti e intellettuali, da tuo padre Alberto poeta a tua madre psicanalista, fino agli zii Marco e Piergiorgio, regista e scrittore, come ti ha influenzata?
Ho sempre saputo di non vivere in una famiglia "normale". Mio padre era prima un sindacalista della Cgil e, in un certo periodo, ha avuto perfino la scorta per circa sei settimane. Era una situazione surreale. Veniva accompagnato solo durante il tragitto casa-scuola delle elementari, dove mi lasciava. Il resto della giornata, se qualcuno avesse voluto minacciarlo, sarebbe stato libero di farlo. È un aneddoto che in qualche modo rappresenta l’assurdità di certi momenti della nostra vita. Mio padre, però, effettivamente non è solo un sindacalista. È anche un vero scrittore. Ha iniziato a scrivere seriamente dopo i 40 anni, e da allora non ha mai smesso. Oggi, a 88 anni, è ancora incredibilmente prolifico. Averlo come esempio mi ha sempre ispirata. Lui scrive per pura passione, senza compromessi.
E tua madre Lella Ravasi?
Anche mia madre è una figura forte. Psicanalista e autrice di saggi, ha avuto una dimensione pubblica diversa ma altrettanto significativa. E poi c’era l’ambiente familiare più ampio, con figure come Marco e Piergiorgio. Marco ha sempre avuto un’influenza artistica dominante, ma ho deciso di non lavorare con lui. Sentivo il bisogno di costruire il mio percorso lontano da quella traiettoria. Piergiorgio, invece, era una figura appartata, quasi misteriosa. Ho sempre trovato affascinanti le sue famose agende: un archivio privato che, chissà, forse un giorno vedremo pubblicato.
Che infanzia ha avuto la piccola Violetta Bellocchio?
Un mix di normalità e straordinarietà. A scuola vivevo le stesse difficoltà di tutti: compagni di classe con vite complicate, storie di famiglie spezzate. Poi tornavo a casa, e quel mondo diventava un microcosmo unico, fatto di artisti e intellettuali che passavano di lì. Era un doppio binario, a volte impegnativo, ma che mi ha dato una prospettiva unica sulla vita.
Piergiorgio Bellocchio, quando l'ho intervistato, ha detto: “Nella famiglia Bellocchio non esistono ruffiani”. È per questo che nessuno di voi ha mai rischiato di avvicinarsi al lato trash del mondo della cultura e degli spettacoli?
Direi di sì, ma non per un senso di superiorità. Io stessa non ho mai partecipato a un reality perché, semplicemente, non ero un "boccone" abbastanza ghiotto per quel tipo di programmi. Detto questo, ci sono stati momenti in cui, se mi fossi trovata in una fase di grande isolamento o fragilità, avrei potuto accettare una proposta simile. Non credo che sarebbe stata una scelta giusta per me, però ho conosciuto persone che hanno partecipato a reality e, per molte di loro, non sono state esperienze positive. Alcune cercavano solo un modo per farsi conoscere, ma poi hanno capito che non era la strada giusta. È un frullatore emotivo da cui è difficile uscire. E sì, ci sono artisti che si buttano in quel mondo pensando di portare in quei contesti un po’ di cultura, ma spesso ne escono frustrati.
Per quanto ha riguardato i Bellocchio?
Nella mia famiglia abbiamo sempre privilegiato percorsi diversi. Piergiorgio, ad esempio, si è sempre mantenuto appartato, quasi distante dal clamore mediatico. Marco, invece, ha costruito una carriera che non ha mai avuto bisogno di scendere a compromessi. Personalmente, preferisco una vita più tranquilla, concentrata sulla scrittura e lontana da quelle esposizioni. Sarà per questo che ho amato molto artisti come Giuseppe Bertolucci.
Adesso non mi dirai anche che preferisci i film di Bernardo Bertolucci rispetto a quelli di Marco Bellocchio…
Ho un profondo apprezzamento per Bernardo Bertolucci. I suoi film hanno una dimensione epica e poetica che mi travolge. Trovo che siano intrisi di un calore umano che arriva dritto al cuore. Il lavoro di Marco, con il quale ho sempre preferito non lavorare ed è stato meglio così, è più spigoloso, più asciutto, mentre Bernardo ha una qualità lirica che mi parla di più. Detto ciò, penso che entrambi abbiano avuto un coraggio straordinario nel raccontare la complessità umana. Uno dei film di Marco che mi ha colpito maggiormente è L’ora di Religione. L’ho visto sia al cinema che in televisione e mi ha lasciato un’impressione fortissima. La sua carica è tale che ti tiene costantemente sul filo del rasoio, come se ogni scena potesse prendere una piega imprevedibile.
Piergiorgio Bellocchio aveva aggiunto un'altra postilla che ti riguarda: “Violetta è piuttosto brava a scrivere. Non chiede consigli perché è orgogliosissima e molto determinata. Ha una vocazione”.
Pensa che non me l’aveva mai detto, ho scoperto quello che pensava di me da quella tua intervista. Piergiorgio era una figura particolare. Non avevamo un rapporto stretto, ma ho sempre ammirato la sua capacità di rimanere appartato, di fare le cose a modo suo. Era una persona che si è progressivamente ritirata dal mondo, dedicandosi a una scrittura privata e molto personale. Le sue famose agende mi affascinano tantissimo (sono centinaia e inedite, nda). Non le ho mai viste di persona, ma so che contengono annotazioni, ritagli di giornale e appunti che documentano il suo universo interiore. Mi piace pensare che un giorno verranno pubblicate, perché potrebbero offrire uno spaccato straordinario non solo sulla sua vita, ma anche su un’epoca.
Tornando al tuo ultimo libro, Electra, affronti temi delicati come identità, isolamento, fama e persino violenza. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
Il seme è stato piantato durante il primo lockdown del 2020, un periodo in cui il mondo si era fermato. Mi sono detta: "Se voglio davvero togliermi dalla vita pubblica, questo è il momento giusto". Avevo già accarezzato l’idea di uno pseudonimo quando ero giovanissima, addirittura durante un cineforum. Pensavo che lavorare sotto un nome fittizio mi avrebbe permesso di vivere una vita più privata, ed è esattamente quello che ho fatto quando ho creato Barbara Genova.
Una parte significativa del libro ruota attorno a un evento traumatico: un’aggressione sessuale che hai subito e poi denunciato. Cos’è successo esattamente?
È accaduto nella primavera del 2018. Era un sabato sera di maggio, intorno alle 22. Mi trovavo a Milano, la mia città natale, dove ho frequentato le scuole e trascorso gran parte della mia vita. Stavo camminando per strada ascoltando musica, concentrata sulle bozze di un libro che sarebbe uscito di lì a poche settimane. Mi sentivo soddisfatta e serena, immersa nel mio lavoro. Poi, all’improvviso, la mia vita è cambiata in meno di due minuti.
Cosa ricordi di quei momenti?
Uno sconosciuto mi ha aggredita. È stato tutto rapidissimo e surreale. Non c’erano molte persone in giro, ma ricordo il senso di disorientamento, di incredulità. Sono sopravvissuta, e questo è ciò che conta, ma il trauma mi ha colpito in profondità. Nei giorni successivi ho deciso di denunciare, un passo che richiede coraggio e forza. Non è stato facile. Descrivere ciò che era successo, tornare sul luogo per indicare i punti esatti dell’aggressione, affrontare una visita ospedaliera. Ogni passo è stato un test emotivo.
Hai detto che la denuncia è stata un processo complesso. Come mai?
Con alti e bassi. Ricordo che mi sono trovata davanti a un poliziotto distaccato, che ha scritto il verbale inserendo frasi che io non avevo detto. Per esempio, aveva aggiunto che stavo denunciando "perché mi vergognavo", una cosa che non avevo assolutamente riferito. Mi sono trovata a correggere il verbale, come se fosse un testo da editare. È una situazione paradossale. Stai denunciando un evento traumatico, e allo stesso tempo cerchi di sistemare la scrittura di chi ti ascolta. In quel momento ho capito quanto fosse complesso il linguaggio delle istituzioni, spesso inadeguato a descrivere le emozioni umane. Ma ho anche imparato che, nonostante tutto, denunciare è importante. È un modo per riprendere il controllo della tua storia, per darle una forma, per non lasciare che il trauma ti definisca completamente.
Come ha influito questa esperienza sulla tua scrittura?
Ha avuto un impatto enorme. La memoria di quelle settimane è incisa a fuoco nella mia mente. Scrivere è stato un modo per elaborare l’accaduto, per trovare una voce che raccontasse il dolore ma anche la resilienza. Nel libro non mi concentro solo sull’aggressione in sé, ma su come è stato affrontare la burocrazia, l’ospedale, le emozioni contrastanti che ne sono derivate. Mi sono resa conto che il trauma non finisce con l’evento, ma continua a vivere nei dettagli, nei ricordi, nelle parole che scegliamo per raccontarlo. Per me, scrivere è stata una forma di guarigione.
Dopo quello che hai passato è cambiato il tuo rapporto con la morte?
Ho avuto una paura tremenda della morte per moltissimi anni, anche prima di questo episodio. Era quasi paralizzante, tanto che evitavo persino gli esami medici per paura di brutte notizie. Ora cerco di viverla con maggiore serenità. Non ho una fede religiosa, ma nemmeno un cinismo assoluto. Penso che il nostro tempo sulla terra sia prezioso, e mi impegno a viverlo nel modo più pieno possibile.