Al nostro Luca Barbareschi, accanto al resto dell’apprezzabile e sterminata e sovrumana produzione teatrale, cinematografica, spettacolare varia e molto altro ancora, dobbiamo il punto più alto di libertà espressiva nell'intrattenimento televisivo. Il format, temo, si intitolasse “C’eravamo tanto amati”, andava in onda su Rete4 e, leggo testualmente, “vedeva confrontarsi in ogni puntata a suon di attacchi verbali una coppia in crisi”. Tra la fine degli anni Ottanta e il primo scorcio del decennio successivo, gli farà dono di un Telegatto. Rammento la testimonianza di un signore che narrava d’essere sempre costretto, tornando a casa, a farsi “annusare il pisello” dalla moglie solerte, dimostrando plasticamente di non averla tradita con la dirimpettaia. Molti in quella circostanza parlarono di abissale “trash”, in verità, come si è già detto, il flusso televisivo non ha mai visto momenti così liberatori, addirittura “libertari”; e non sembri questo un paradosso. Tutto ciò nulla toglie alla versatilità della persona, del professionista, dell’imprenditore teatrale, del produttore, del doveroso narcisista pronto a mostrarsi anche nel condominio di Milly Carlucci, Ballando con le stelle, in tuta da ballerino. Nel resto del suo inarrestabile palmarès brilla comunque anche molto altro: da Bertolt Brecht alla partecipazione al cinema “poliziottesco” di Umberto Lenzi, dall’impegno politico (con il Popolo della libertà berlusconiano) all’esistenza come Barbareschi stesso: Luca B., brand personale. Di recente, sia pur continuando a professarsi “socialista”, ha avuto cura di dichiarare pubblicamente il proprio alto apprezzamento per Giorgia Meloni.
Lo ha fatto anche mesi addietro, trovandosi insieme a chi scrive ospite di Andrea Pancani a “Coffee Break” su La7. Lo ha fatto con orgoglioso puntiglio. Accusando l’altro, l'interlocutore scettico sulla destra-destra al governo, con veemenza non meno teatrale - brechtiana, appunto - d’essere “comunista”, espressione di un vecchio mondo politico e culturale inadeguato a comprendere che “la pacchia è finita”. Una caduta di stile per un artista, chi scrive infatti si è visto costretto a dirgli che avrebbe fatto molto meglio, per rispetto allo spessore mito-poietico di Barbareschi stesso, a recitare la nona delle “Elegie duinesi” di Rainer Maria Rilke. Più prosaicamente, scendendo sulla terra delle ambizioni ordinarie, accolte le dimissioni di Sergio Castellitto, appare necessario reperire un nuovo presidente per il Centro sperimentale di cinematografia. Barbareschi si è detto pronto mostrando il petto, come chi accetti il sacrificio: “Anche se per ora non c’è niente di ufficiale, so che è stato fatto il mio nome e ringrazio per questo. Se si concretizzasse l’offerta sarei felice di accettare”, parole consegnate a “la Repubblica”. Il professionista, più che le sirene dell’ambizione, sembra sentire infatti le sollecitazioni altrui, quasi una chiamata che gli giunge da un sentire comune plebiscitario, Barbareschi uomo necessario del destino, multiuso come un coltello svizzero, al tempo dell’apprezzata Giorgia Meloni: “Da circa un anno e mezzo, c’è interesse nei confronti della mia persona. In molti mi chiedono: perché non sei andato alla Biennale? Perché non vai allo Stabile di Catania, a quello di Palermo, all’Argentina?”.
La chiosa successiva appare però meno eroica, forse addirittura dolente, vittimistica: “Alla fine non si concretizza niente”. Nonostante il coro entusiastico di chi lo reputi, appunto, idoneo al ruolo, di più, perfetto, o, come si pronuncia, nel lessico più stringente la morte sua. Infatti: “Ho dato la mia disponibilità. Amici, non solo politici, mi hanno detto: vai tu che sei un buon formatore, saresti la persona adatta, mi hanno chiamato tutti, soprattutto persone di cinema, critici, mi stimano in molti”. Quanto ai chiodi a quattro punte disseminati dagli ostili del M5s lungo la Tuscolana, dove ha sede il Centro sperimentale, istituzione nata per il diletto di Vittorio Mussolini, figlio, sparsi, con fervore degno dei Gap romani durante i giorni della Resistenza, replica con piccato amor proprio, d’obbligo per l'artista che si pretenda innanzitutto tale: “La somma di tutti i Cinquestelle non ha i titoli e il lavoro che ho fatto in tutti questi anni. Sono divisivo da sempre, sono un uomo libero. Ho votato Giorgia Meloni: posso avere il diritto di dirlo? Siamo in democrazia. L’ho detto con onestà, molti dicevano di non votare Berlusconi e lo votavano. Statisticamente non avrebbe potuto avere tutti quei voti”. Qui lascia serpeggiare l'adagio risaputo sulla trascorsa egemonia elettorale del dissolto Scudo crociato. Infine le pompe, meglio, le idrovore del narcisismo barbareschiano raggiungono il pieno regime, sia detto sia in senso tecnico sia alludendo al sottogoverno politico che pretende "ricambio", nuova egemonia, revanche post-fascista: “Sono un professionista. Non devo dimostrare niente a nessuno. Parlano i film che ho fatto, l’anno prossimo festeggio 50 anni di spettacolo. Mi piacerebbe essere scelto da chi vuole una persona capace al Centro Sperimentale. Mi occuperei della formazione dei giovani, che mi ha sempre interessato. Avrei voluto portare la Scuola Gian Maria Volontè dentro l’Eliseo, fare formazione e produzione, una staffetta ideale tra artisti, il passaggio del pensiero”.
Adesso la polluzione diurna di chi confermi a sé stesso indubitabili meriti innalzando i curricula appare pienamente raggiunta, un orgasmo preventivo. Alla fine, quel giorno, a La7, l’abbiamo avuta vinta sul “divisivo” Barbareschi, l'Artista che è in lui ha ceduto, prevalso, accantonato pro tempore l’endorsement per il Minculpop governativo, la nona “Elegia duinese” di Rilke l’ha recitata davvero e con trasporto; chi scrive è riuscito a spuntarla: “Siamo qui forse per dire: casa/ ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra/al più colonne, torre…ma per dire, comprendilo/ oh, per dire così, come mai le stesse cose capivano d’essere intimamente”. Altro che “Io sono Giorgia”.