“Tu ti illudi, i cuori si richiudono col tempo”. Nostalgia è la requie, è il punto d’approdo. Solo il passato veramente ci domina, solo questo ha realtà, e non c’è immaginazione tanto nitida da sostituirlo, da affiancarlo, da soffocarlo. “La conoscenza è nostalgia. Chi non ha perso non possiede”: con questa citazione di Pier Paolo Pasolini si apre il film “Nostalgia” diretto da Mario Martone, presentato in concorso al Festival di Cannes. La trama è incentrata sulla vita di Felice (interpretato da Pierfrancesco Favino), uomo silenzioso, dall’occhio vigile, scrutante, che dopo 40 anni di lavoro tra Medio Oriente e Africa decide di tornare a vivere nel luogo natio, il Rione Sanità di Napoli. È ancora questa città a porsi sul piedistallo cinematografico, è ancora il raffronto con la giovinezza degli anni ‘70 a creare l’immaginario quotidiano del protagonista: dopo “È stata la mano di Dio” di Sorrentino siamo ancora a fare i conti col passato, a miscelare il vecchio col nuovo, a ricercare a ritroso un punto fermo, o a fuggire a tutti i costi dall’agio e dal conforto del calore di casa.
Quasi che la pandemia avesse annichilito ogni prospettiva di futuro, ogni forma di dinamismo: o forse che quest’ultima è veramente rievocabile nel continuo contatto con un mondo remoto, mai completamente sommerso, dalle radici ben piantate, che ci lega, talvolta ci frusta, ma spesso ci illumina, ci delinea la strada dell’oggi. Proprio negli anni Settanta, Felice partecipa una rapina notturna, durante la quale l’amico Oreste è autore dell’omicidio del proprietario di casa, di cui il primo è testimone. Felice fugge all’estero, diviene un importante imprenditore, acquisisce accento arabo, si converte all’Islam: ha tutti gli elementi per lasciarsi alle spalle Napoli e il vissuto tragico cui è legata. Oreste invece diviene un importante boss della camorra del Rione Sanità. Prima di tutto ciò l’omicidio viene archiviato per mancanza di prove: il colpevole e il testimone sono gli unici due detentori del segreto e della verità. Su questo sfondo drammatico s’innesta il ritorno di Felice a Napoli: dal senso di colpa per esser fuggito, al peso di conoscere la tragica verità, alla necessità quasi bambinesca, inspiegabile agli occhi dei più di rincontrare Oreste, che per Felice rimane un “vecchio amico”. Sì perché nel Rione Sanità Oreste è innominabile, o sei nella sua banda o sei suo nemico: Felice non si rende conto, per lui la Napoli è sempre quella delle corse in moto con Oreste, dei bagni nudi in mare, il loro rapporto si racchiude nel vissuto giovanile: non c’è amicizia che possa essere cancellata dal presente della vita privata, anche se questa è sporca di sangue, di omicidi e criminalità. È tutto ancora vivo, è tutto ancora attuale, il passato è ancora vivo perché è l’unico mondo che assieme i due protagonisti hanno costruito; tutto il resto per Felice quasi non esiste, non ha peso, non li riguarda. È come se le loro vite e il tempo si fossero sospesi al momento della separazione, e potessero riattivarsi solo nell’incontro: è come se vivessimo tante vite parallele, singolari, a due a due, e ognuna avesse un senso proprio, una propria dinamica: la linfa in grado di animarla è quella che noi stessi decidiamo e vogliamo mettere in circolo, senza intermediari o ingerenze esterne. Vite parallele a compartimenti stagni; la sospensione di un rapporto è la morte, che ci reclude nel ricordo e nel sentimento nostalgico.
Ed è per questo che Felice riesce a tenere assieme vite tra loro contraddittorie e contrastanti: rincontra Oreste, ed allo stesso tempo si lega fortemente a Don Luigi, che da anni combatte la camorra e diniega ogni forma di comunicazione con la criminalità. Felice non solo sceglie il dialogo, non solo sente il forte sentimento (quasi egoistico, oserei dire) di rincontrare Oreste, di chiarire le ragioni della sua fuga e dell’abbandono di un amico. Felice prima di tutto non ha paura, perché crede fortemente nel passato, sebbene permanga una certa consapevolezza che questo non possa essere riportato in auge completamente, che un ripristino è sempre una forzatura, che bisogna partire da dove ci siamo lasciati.
Tuttavia, se vi è stato un passato più puro dell’attuale vita di un camorrista, anche se legato alla spensieratezza adolescenziale, anche se macchiato da risse e piccoli furti, è possibile un confronto, un’apertura, un segno di riconoscimento che riporti all’equilibrio, anche a costo della vita. “Lascia stare le colpe passate, tu devi pensare a mo’ ”.