Ricordo quando ho visto “Spencer” alla Mostra del Cinema di Venezia, ricordo che le prime parole che scambiai con un amico e collega furono: “Non fosse per la Stewart e lo stupido escamotage di Anna Bolena sarebbe il perfetto sequel di Shining”. A distanza di sei mesi - circa- lo penso ancora. Arriva in sala, alle soglie della cerimonia degli Oscar (Kristen Stewart tra le favorite, inspiegabilmente come Miglior attrice), a venticinque anni – quasi - dalla morte della principessa del popolo, Lady Diana. E voi dove eravate quando è morta Diana?
Lo chiedevano ai baby boomers dopo la morte di Elvis Presley, e ora tutti i millennials dovrebbero ricordarsi dov’erano e cosa facevano quando Diana morì, a Parigi. Ricordo che ho saputo della tragedia al Tg mentre ero seduta sul tavolo della cucina tenendo in mano una tazza di cereali, avevo undici anni e la pre-pubescenza mi trattava ancora con dolcezza. Diana Spencer era la madre putativa di tutti noi ‘esiliati sulla Main Street’, la Jackie Onassis degli anni ‘90, l’icona di stile, umanità e savoir-faire a cui tutte le mamme coi capelli corti e gli orecchini a monachella guardavano.
Pablo Larraín sembra averci preso gusto in questa serie di pop biopic. Da Neruda (il suo migliore tra tutti i quadri biografici) a “Spencer” passando per Jackie. Larraín è un regista delicato, ricercato senza essere presuntuoso, artigiano del mestiere senza privarsi della fede dell’arte. Eppure a questo giro qualcosa inizia a dissolversi, e il dissolvimento inizia dalla recitazione caricaturale di Kristen Stewart, ma andiamo con ordine. “Spencer” si snocciola nel periodo delle festività natalizie del 1991, a Sandringham nel Norfolk, dove Diana e la famiglia Reale si riuniscono ogni anno come da tradizione.
I tre giorni coperti dal film, dalla vigilia di Natale a Santo Stefano, rappresentano una vera via crucis per la principessa, una discesa agli inferi fatto di chiacchiere sottovoce, paparazzi invadenti, fantasmi veri o presunti e disturbi alimentari che rappresentano l’elefante nella stanza.
A peggiorare il tutto, nonostante sia supportata inizialmente dalla costumista e amica Maggie, è il libro che Diana trova in camera da letto su Anna Bolena e che stimola, in modo surreale, la sua insoddisfazione nel cercare dei parallelismi con la seconda moglie di Enrico VIII.
Tra cene fatte di angoscia distillata, indifferenza da parte della famiglia reale nei suoi confronti e il disprezzo di lei in risposta, autolesionismo immaginato e tristi ricordi d’infanzia, l’elemento più disturbante del film è nel maggiore Alistair Gregory che guida lo staff del castello; vero villain del film (dove non esistono cattivi), fil rouge tossico tra la nobiltà e il popolo, un memento mori per Diana, un cavaliere dell’apocalisse che le ricorda costantemente i doveri da cui vuole scappare.
Perfetto contraltare sono William e Harry, soprattutto William che cura, nel possibile, quella madre che Pablo Larraín descrive in modo tanto vivido quanto impietoso.
E gli attimi migliori, troppo pochi, la Stewart li regala nel suo relazionarsi a questi due giovani ragazzi, quasi a volere ricordare che al di là di come la pensiate su Diana, prima di tutto era una madre devota, affezionata resa ancora più umana da quella capacità (suo malgrado) di dimostrare come i genitori siano solo esseri umani incasinatissimi.
Se Jackie era descritta come una manipolatrice dal temperamento isterico sotto una patina di calma glamour, Diana è una persona tormentata il cui male si allarga oltre i contorni di un corpo martoriato dalla bulimia finendo, inevitabilmente, per contagiare tutti: dall’odiata famiglia reale ai paparazzi, dall’immagine pubblica ai ricordi di un presunta felicità pastorale fino agli amati figli.
Carlo, Camilla, Filippo come Elisabetta II, tutti guardano inermi e perplessi la corsa verso l’olocausto di Diana: nessuno può frenarla, avvicinarla, consigliarla, se non qualche saggia considerazione, da parte di Carlo in una bellissima scena davanti al biliardo, su come rallentare un destino che pare segnato e il tossico sovrapporsi dell’immagine pubblica e privata.
L’anno dopo, il 9 dicembre 1992, Carlo e Diana annunciarono al mondo la loro separazione dopo un matrimonio da favola, e come le favole totalmente irrazionale e impensabile da sostenere nel lungo periodo.
In Spencer non ci sono personaggi totalmente da condannare o da piangere, Diana cerca una libertà che ha il sapore di una resa e di un ‘suicidio’ programmato perché non c’è un punto di arrivo, un approdo dal naufragio emotivo in cui riversa la principessa.
Inseguita, o almeno crede, dal fantasma di Anna Bolena, Diana torna alla lucidità, come il film, solo per ‘salvare’ il figlio maggiore dall’iniziazione al tiro al fagiano.
Nessuno oppone resistenza, così confermando per l’ennesima volta durante la visione, l’immagine sofferente e ambigua di una famiglia dilaniata dalle reciproche incomprensioni e dalle aspettative pubbliche e storiche.
I veri attimi di orrore in Spencer sono nella bellezza di una donna prostrata davanti al water per vomitare, nei pasti consumati in silenzio nel pieno di una atmosfera piena di malessere, nelle tende cucite come bocche in un horror per proteggere Diana dai paparazzi.
L’orrore sta nell’orizzonte in cui dagli anni ‘90 abbiamo voluto vivere e che internet ha peggiorato: il fatto che il capitale umano siamo noi, le nostre vite e che la continua ossessione/fascinazione che subiamo per le esistenze altrui dimenticandoci che siamo solo esseri umani, tutti, indistintamente.
Perché Diana ha pagato per qualcosa che molti di noi non riescono più a immaginare, o per dirla con Arthur Miller: volevi una vita vera, e quella è una cosa cara. Costa.