Prophecy è appena sbarcato in sala e ci resterà fino al 27 marzo. Tratto dall'omonimo manga di Tetsuya Tsutsui, nel film diretto da Jacopo Rondinelli si gioca con ruoli e archetipi ben definiti, al centro della storia un uomo mascherato, Paperboy, che lascia dei videomessaggi su internet nei quali si scaglia contro i problemi e le disuguaglianze della società, dando vita a un movimento di protesta dalle sfumature piuttosto strane e sinistre. Noi abbiamo intervistato due dei protagonisti di Prophecy, Damiano Gavino e Giulio Greco, per approfondire come questo film riesca ad affrontare temi reali e urgenti, come i tanti mali dei social e la precarietà lavorativa, che ormai bussa alla nostra porta ed entra nelle nostre vite con una frequenza sempre maggiore, quasi quotidiana. Ma noi giovani quanto siamo disposti a inseguire i nostri sogni? Tanto, forse più delle generazioni di ieri, vogliamo andare contro tutto e tutti verso l'Arte, anche contro l’incertezza del domani.

Damiano Gavino e Giulio Greco. Prophecy è un film che affronta tematiche complesse come la giustizia, la paura e il potere dei media. C'è stato un aspetto della preparazione ai vostri ruoli che vi ha messo particolarmente alla prova, magari costringendovi a rivedere il vostro modo di pensare o di approcciarvi alla recitazione?
Damiano Gavino: A livello fisico direi che la sfida più grande è stata indossare la maschera: non è qualcosa che si fa tutti i giorni. Ma, a livello emotivo, ciò che mi ha colpito di più è stato il percorso di crescita del mio personaggio. Ho trovato affascinante il modo in cui lui, inizialmente accecato dal successo, arriva a capire che il vero traguardo non è l’affermazione personale, ma l’aiutare chi è considerato più debole.
Giulio Greco: Per me, la difficoltà maggiore è stata affrontare un personaggio come Paperboy: un sognatore, ma allo stesso tempo molto concreto in quello che vuole fare. È un ragazzo brillante, pieno di qualità e desideri, in cui mi ritrovo molto anche come Giulio. Lavorare su Manfredi, invece, ha significato minare nella mia parte più sensibile, ed è stato complicato, perché in alcuni momenti mi sono trovato faccia a faccia con me stesso. Poi c’è il tema del potere dei media: da quando esistono, la comunicazione è sempre stata fondamentale per muovere le masse, e con l’avvento della radio e della televisione il suo impatto è diventato ancora più forte. Oggi chiunque può comunicare, il che è giusto dal punto di vista sociale e culturale, ma anche pericoloso. Nel film si percepisce anche il potere del denaro legato al personaggio di Manfredi. Soldi per comprare anche l'opinione degli altri, cosa che per me è molto molto grave.
La maschera è simbolo sia di anonimato che di identità. Nella vita quotidiana e sui social, quanto è importante esporsi su temi sociali o ingiustizie?
Damiano Gavino: Esporsi sui social richiede molto coraggio e avere una voce pubblica implica una grande responsabilità. Penso che, prima di prendere posizione su certi temi, sia fondamentale essere informati al 100%. Personalmente, credo che la “maschera” non sia necessaria quando si affrontano questioni socialmente impegnati.
Il film esplora temi come la paura e la paranoia. Vi siete mai trovati in situazioni personali che vi hanno fatto sentire intrappolati in una sorta di profezia o destino inevitabile?
Damiano Gavino: Sì, sentirsi intrappolati capita spesso. Essere prigionieri di una profezia, però, è qualcosa di molto più raro, e il termine profezia l’ho sempre visto in modo positivo. Se penso a un episodio che mi ha fatto provare questa sensazione, mi viene in mente il mio primo provino. È stato un momento decisivo che mi ha portato a fare questo mestiere e a vivere una vita completamente diversa da quella che avevo prima. In un certo senso, mi sento ancora dentro questa “profezia magica”.
Giulio Greco: Il percorso in questo lavoro non è semplice, anzi, spesso è tortuoso e spaventoso, soprattutto quando si è giovani e inesperti. Ci si chiede: “Sto entrando in qualcosa più grande di me? Ce la farò? Sarò solo? Chi mi starà accanto?”. Avere figure di riferimento che ti guidano non è scontato. Oggi, con un po’ più di maturità, mi rendo conto di aver vissuto momenti difficili e di essermi buttato giù, ma oggi sono contento di aver sofferto. Sono esperienze che ti mettono di fronte a un bivio: fermarsi o andare avanti. E andare avanti è sempre la scelta giusta, perché le difficoltà insegnano e aiutano a conoscersi meglio.
Il film affronta il tema della precarietà lavorativa, una realtà che molti giovani vivono oggi. Pensate che questa tematica meriti maggiore attenzione nel cinema e nel dibattito pubblico?
Damiano Gavino: È molto importante. Sono dell'idea che tante persone della mia generazione stanno avendo il coraggio di entrare nel mondo del precariato, si concedono più all’arte, che spesso significa vivere in un continuo stato di incertezza. All’inizio ho faticato a gestirlo, perché ero insicuro e spaventato. Ho sempre avuto bisogno di schemi precisi, ma questo lavoro non te li concede o meglio che durano per un determinato periodo. Per questo è giusto che il cinema, l'arte in generale, racconti questo mondo.
Giulio Greco: Sì, assolutamente sì. L'arte deve parlare della società e la cultura deve essere a misura d’uomo. Non significa che non si possano raccontare storie con un sottotesto fantasy, ma devono comunque trattare temi profondi. La precarietà è uno di questi. Oggi leggevo un articolo che spiegava come i giovanissimi inizino a pensare di avere figli, ma poi rinuncino perché manca la stabilità economica. Viviamo in un’epoca in cui tutto è incerto e questo genera ansia, uno dei mali della nostra società. L'ansia destabilizza e crea instabilità totale. Sogno un cinema che racconti tutto questo, ma che non si limiti a mostrare i problemi, che proponga anche soluzioni. Solo così si può provare a cambiare qualcosa.
