Michael Pollan, scrittore e docente di giornalismo scientifico e ambientale alla Berkeley Graduate School of Journalism, è l’autore di questo stupefacente Come cambiare la tua mente, edito da Adelphi qualche anno fa nella Collana dei Casi e appena ripubblicato nella collana Gli Adelphi con l’inconfondibile copertina psichedelica di Kazumasa Nagai. Già altri suoi saggi sono usciti con Adelphi (Il dilemma dell’onnivoro, In difesa del cibo, Una seconda natura), ma questo How To Change Your Mind è un’opera potentissima e documentatissima, il racconto fluviale dell’epopea psichedelica statunitense che partendo dagli anni Sessanta è arrivata fino a noi. Proprio in questi giorni Netflix fa partire l’attesa docuserie tratta da libro, in cui l’autore esplora la storia avvincente e imprevedibile dell’uso di sostanze psichedeliche come la psilocibina (estratta dai “funghi magici”), l’Lsd, la mescalina e l’Mdma.
Per delineare questa storia, partiamo dalle origini. La prima molecola inventata, la dietilamide dell’acido lisergico (Lsd) scaturiva da un’operazione accidentale: nel 1938 Albert Hofmann, che lavorava per la casa farmaceutica svizzera Sandoz, la ricavò cercando un farmaco che stimolasse la circolazione, e cinque anni dopo si trovò a ingerirne una piccola quantità, finendo per fare un viaggio incredibile. La seconda molecola, la psilocibina, esiste in natura ed era già nota da secoli, tanto che le popolazioni indigene del Messico e dell’America centrale la usavano nei riti religiosi: era il fungo marrone che gli Aztechi chiamavano teonanácatl, ossia la “carne degli dèi”; per questo non tardò la brutale repressione seguita alla conquista spagnola, fatta all’insegna della dottrina cattolica. Fino agli anni Cinquanta le proprietà del piccolo fungo marrone rimasero sconosciute alle civiltà avanzate, e si tende a dimenticare che anche l’Lsd è stata ottenuta da un fungo, l’ergot o Claviceps purpurea. In pratica, vediamo la natura che produce strumenti di conoscenza superiore e li offre alla mente umana.
Da qui, grazie alla sperimentazione avviata da una generazione di scienziati (che non disdegnavano di farne esperienza diretta), si arrivò ad applicare la potenzialità di queste sostanze anche alla cura dei problemi mentali del nostro tempo: la depressione, l’ansia, i traumi, le dipendenze. Non solo: oggi altri scienziati usano le sostanze psichedeliche attraverso i nuovi strumenti per visualizzare e studiare il cervello, il brain-imaging, per poterne osservare gli effetti ed esplorare i legami che hanno con il funzionamento della mente e le dinamiche della coscienza. Michael Pollan, con la sua naturalezza e ironia nel narrare le sue indagini avventurose, ci “inizia” a tutta una serie di esperienze conoscitive e aneddotiche, introducendoci in un mondo caleidoscopico, sorprendente, tipicamente americano. Innanzitutto, impariamo l’importanza del “set” e del “setting” nell’avviare il trip con l’Lsd o la psilocibina: il “set” è l’atteggiamento mentale o l’aspettativa che viene immessa nell’esperienza, il “setting” è l’ambiente in cui il viaggio ha luogo. Questo perché l’effetto degli psichedelici, se provato più volte da una persona, quasi mai è lo stesso: le sostanze tendono ad amplificare qualsiasi cosa sia già in atto dentro e fuori la sua testa, quindi il risultato è una iper-esperienza di ciò che una persona è, consciamente e soprattutto inconsciamente. Da qui la grande differenza rispetto ad altre sostanze stupefacenti. Spesso l’esperienza che si ottiene ha un carattere mistico, descritta come la “dissoluzione” dell’ego (ciò che viviamo quotidianamente e a cui siamo abituati) e la fusione con la natura, che viene scoperta come qualcosa di mai visto, o con quello che si percepisce come l’universo.
Per questo viene da pensare che tali cambiamenti nella mente non siano il puro effetto materiale, farmacologico della sostanza, ma siano direttamente il tipo di esperienza mentale che ha luogo, in cui l’ego cessa di esistere per dissolversi in un tutto. “Scuotere la palla di vetro con la neve” è la formula con cui un neuroscienziato descrisse l’esperienza psichedelica. Perché la vita cognitivo-comportamentale a cui siamo abituati ci induce, quasi invariabilmente, a ottimizzare e a standardizzare le nostre risposte a qualsiasi fatto o incombenza quotidiana: ognuno sviluppa le sue “scorciatoie” per definire ed elaborare le esperienze di ogni giorno e risolvere i relativi problemi in base alle esperienze passate; è un comportamento adattivo che ci aiuta a fare ciò che dobbiamo con il minimo sforzo, portandoci così a consolidare un processo meccanico in cui i muscoli dell’attenzione lavorano sempre meno. Come spiega l’autore, “Le abitudini sono indubbiamente strumenti utili, giacché ci risparmiano la necessità di ricorrere a complesse operazioni mentali ogni volta che affrontiamo un compito o una situazione nuovi. D’altra parte, ci sollevano anche dal bisogno di restare svegli nei confronti del mondo: dal bisogno di fare attenzione, essere percettivi, pensare, e poi agire in maniera deliberata (in altre parole, in modo libero e non compulsivo)”.
Accade quindi che questi meccanismi della mente, così efficaci, impediscono di vedere e riconoscere il vero presente nel suo scorrere. “Saltiamo costantemente avanti, verso la cosa successiva. Ci accostiamo all’esperienza in modo molto simile a un programma di intelligenza artificiale: il nostro cervello traduce continuamente i dati del presente nei termini del passato, protendendosi indietro nel tempo a cercare esperienze rilevanti, e quindi usandole per formulare l’ipotesi migliore su come prevedere il futuro e orientarsi in esso”. È da questo insieme di cose che esce la straordinarietà dell’esperienza psichedelica, che apre un universo non conosciuto, in quanto esterno ai consueti orizzonti psico-operativi, nella cui vastità ci si perde. Spesso si esce dal trip convinti che sia stata svelata una verità profonda, oggettiva, mai vista e quindi spiazzante. Dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Settanta, come si è visto, i composti psichedelici vennero usati per curare disfunzioni come la depressione, il disturbo ossessivo-compulsivo l’alcolismo, l’ansia dei malati terminali. Da qui si passò alle ricerche sulla capacità degli psichedelici di contribuire al “miglioramento delle condizioni delle persone sane”, nei campi della creatività artistica e scientifica e della spiritualità.
Il fatto che esistesse un fungo in grado non soltanto di alterare la coscienza degli esseri umani ma anche di produrre un’esperienza mistica profonda, mai provata prima, liberò l’elaborazione di diverse teorie. Innanzitutto, la capacità della psilocibina di alterare la mente può far pensare che negli ominidi primordiali gli dèi fossero proiezioni dell’immaginario indotte chimicamente proprio dall’assunzione del fungo (saremmo drogati fin dalle origini, insomma). “Considerando l’azione degli psichedelici, si potrebbe ragionevolmente concludere che, negli ominidi, gli dèi non siano altro che costruzioni dell’immaginazione indotte chimicamente – scrive Pollan. – Eppure, e questo è sorprendente, la maggior parte di coloro che hanno avuto tali esperienze non vede affatto le cose in questo modo. Anche i più laici emergono dai loro viaggi convinti dell’esistenza di qualcosa che trascende un’interpretazione materialistica della realtà: una sorta di ‘aldilà’ Non che costoro neghino una base naturalistica di tale rivelazione; semplicemente, la interpretano in modo diverso. Se l’esperienza di trascendenza è mediata da molecole che scorrono tanto nel nostro cervello quanto nel mondo naturale di piante e funghi, allora forse la natura non è muta come ci ha raccontato la Scienza; e lo ‘Spirito’, comunque lo si definisca, esiste là fuori – in altre parole, è immanente nella natura, proprio come hanno creduto innumerevoli culture premoderne”.
Da qui l’interessante Stoned Ape Theory, la teoria introdotta da Roland Fischer e poi divulgata e riformulata da Terence McKenna, secondo cui l’ingestione di psilocibina avrebbe prodotto un rapido sviluppo del cervello degli ominidi verso il pensiero analitico e il legame sociale (tenendo presente che ventitré specie di primati consumano funghi e sono in grado di distinguere quelli “buoni” da quelli “cattivi). Insomma, questa “teoria della scimmia drogata” presume che i funghi Psilocybe offrirono agli ominidi nostri antenati l’accesso ai concetti di potere sovrannaturale e alla autoconsapevolezza tipicamente umana, portando questi animali fuori della loro sfera (come oggi si esce dal proprio ambito cognitivo per entrare in un universo altro da sé) e introducendoli all’uso del linguaggio articolato e dell’immaginazione. “Quest’ultima ipotesi, sull’invenzione del linguaggio, si fonda sul concetto di sinestesia, ovvero sulla fusione dei sensi indotta, come è noto, dalle sostanze psichedeliche: sotto l’influenza della psilocibina, i numeri possono assumere colori, i colori attaccarsi ai suoni, e così via. Il linguaggio, sostiene McKenna, rappresenta un caso particolare di sinestesia in cui suoni altrimenti privi di significato si legano a concetti. Di qui, la scimmia drogata: consegnandoci i doni del linguaggio e dell’autoriflessione, i funghi psilocibinici fecero di noi quel che siamo, trasformando il primate nostro antenato in Homo sapiens”.
Ora, diteci se non è coinvolgente questa galoppata. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti furono alle prese con una sorta di panico nei confronti dell’Lsd, a causa della promozione delle sostanze psichedeliche a opera della controcultura giovanile, quale mezzo di trasformazione personale e di centratura sul sé, sulla propria autocoscienza e sulla propria realizzazione. A un certo punto queste pratiche vennero viste come un minaccia all’ordine sociale e politico: “Un invito ai figli d’America non solo a prendere droghe in grado di alterare la mente, ma a rifiutare la via aperta per loro dai genitori e dal governo – compresa quella che portava i giovani maschi in Vietnam”. In questo diario di viaggio, che diventa la cronaca investigativa di un lungo esperimento, Michael Pollan mette le sue energie e le sue risorse di empatia per incontrare le persone più varie, dai guru agli scienziati, dai medici agli sciamani, sempre proteso verso la comprensione del fenomeno mistico in cui si ha la sensazione di “toccare dio”. Concludiamo con una sua considerazione su questo punto:
“Per me, spirituale è un buon attributo per alcuni dei potenti fenomeni mentali che affiorano quando la voce dell’ego è attenuata o zittita. Se non altro, questi viaggi mi hanno mostrato come quel costrutto psichico – al tempo stesso tanto familiare, e però a rifletterci bene così strano – si erga tra noi e una dimensione dell’esperienza sorprendentemente nuova, sia essa appartenente al mondo fuori di noi, o alla mente dentro di noi. I viaggi mi hanno mostrato quello che il buddhismo cerca di dirci, ma che io non ho mai capito sul serio, e cioè che nella coscienza c’è molto più dell’ego – cosa che capiremmo se soltanto facesse silenzio. E che la sua dissoluzione (o trascendenza) non è nulla di cui aver timore; in effetti, è un prerequisito per compiere qualsiasi progresso spirituale.
L’ego, però, quel nevrotico interiore che insiste a condurre lo spettacolo mentale, è subdolo e non abbandona il potere senza combattere. Credendosi indispensabile, si batterà contro il proprio silenziamento – sia prima, che nel bel mezzo del viaggio. Io sospetto che il mio stesse facendo esattamente questo nelle notti insonni che precedettero ciascuno dei miei trip, quando si sforzò di convincermi che stavo rischiando tutto, mentre in realtà l’unica cosa a rischio era la sua sovranità. […] Quel guardiano attento e severo ammette soltanto una strettissima banda di realtà, ‘il misero rigagnolo della specie di coscienza che ci aiuterà a vivere’; è abilissimo a eseguire tutte quelle attività cui la selezione naturale dà valore: prosperare, essere apprezzati e amati, essere nutriti, fare sesso. Impedendoci di divagare, è un editor feroce che taglia qualsiasi cosa possa distrarci dal lavoro in corso, regolando il nostro accesso sia ai ricordi e alle forti emozioni che affiorano dall’interno, sia a informazioni provenienti dall’esterno”.