Tu, pubblico, a un Lars Von Trier devi volere bene perché è “un fottuto essere umano”. Le dichiarazioni imbarazzanti sul nazismo a Cannes anni fa, le accuse di misoginia, la follia dei suoi metodi di lavorazione (però se lo faceva Kubrick andava bene), i suoi grossolanissimi e imbarazzanti errori in una filmografia che presto o tardi, quando saremo chiamati a piangerlo, svaniranno tra le perle che ci ha donato, una su questa è l’ironia di Riget – The Kingdom. Se non avete visto in diretta o in differita le prime due stagioni di questa serie (rispettivamente nel 1994 e 1997) recuperatele nella bulimia delle piattaforme on-demand. Lars parodiava già Twin Peaks e i drammi medici anticipando, di qualche anno, l’ironia oltre la quarta parete che avrebbe reso famoso Ricky Gervais con The Office (sia UK che US).
Lars Von Trier è malato, e si vede all’inizio della proiezione di The Kingdom (e fa anche un cameo più avanti), non è più il giovane che, come un moderno Rod Serling, (Twilight Zone/ Ai confini della realtà) chiudeva le puntate della miniserie col sorriso sornione, è un’altra persona, forse migliore, perché per dirla con quel capolavoro del film Stalker: “Debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà”. Il regista di Dogville l’ha capito e si adegua allo spirito folle di questi tempi, e benché il Parkinson non sia una scampagnata, come disse qualcuno se dobbiamo dirci addio facciamolo cantando. Lars lo fa ridendo. Si ride molto in questa terza stagione di The Kingdom tra volti nuovi e grandi ritorni: da un Udo Kier degno di un personaggio fantastico de La Storia Infinita (ma rischio lo spoiler) al super inquietante Willem Dafoe uscito dalla Loggia nera, probabilmente.
C’è sempre l’eterna lotta tra bene e male, ma ancora più interessante e come i corsi e ricorsi storici, la guerra tra danesi e svedesi con, a questo giro, pure una associazione di svedesi anonimi ne Il regno -che è l’ospedale più crepy al mondo - una via di mezzo tra gli alcolisti e una massoneria di bassa lega. Citazioni bergmaniane, frecciate, per non dire cannonate, ai metodi idioti in cui proviamo a costruire una società inclusiva al #metoo, con un fantastico Alexander Skarsgard nel ruolo di un avvocato (svedese) che pratica in uno dei cessi dell’ospedale.
Aveva ragione Fellini, la vita è una festa viviamola insieme, non c’è un modo giusto di dirsi addio (spero che questo non lo sia in maniera definitiva) ma un modo di guardarsi indietro ma senza rabbia (contrariamente a quanto cantavano gli Oasis), ringraziare per quello che c’è stato e ridere amaramente dei rimpianti e dei rimorsi. La cosa incredibile di questa terza stagione è che non avrete bisogno, per chi non conoscesse tutto Lars Von Trier, di recuperare le prime due perché la trama si riassume nei misteri soprannaturali che avvolgono un enorme ospedale danese e i casi umani che ci lavorano. Meno horror ma più dalle parti di quel gioiello che fu Il grande capo, tra le opere meno considerate di Trier. Raccontare ciò che è stato visto in 5 ore di visione sarebbe inutile, controproducente per chi deve ancora esperirlo, ma anche inutile: mettere in ordine quelle ore passate tutti assieme significherebbe dare un senso logico a un flusso di coscienza, raccogliere la minestrina con la forchetta, cercare una risposta razionale all’arte che, esattamente per tutto ciò che è inspiegabile a questo mondo, ha bisogno solo di un pubblico che riprenda la vista, di una pubblico che rida e pianga su quella barzelletta di cattivo gusto che è la vita. Ci vediamo ne Il regno.