Due decenni sono passati da quel fatidico 14 settembre 2000 e da allora tantissime cose sono cambiate ma, incredibilmente, il Grande Fratello (sebbene oggi nella sua incarnazione VIP) è ancora qui. Al padre di tutti i Reality Show sono stati dedicati così tanti libri, trattati, tesi di laurea e seminari che pretendere di dire qualcosa di originale o inedito sulla casa e i suoi indimenticabili inquilini (Pietro, Marina, Sergio, Rocco, Salvo, Cristina, Roberta, Lorenzo, Maria Antonietta, Francesca… ok gli ultimi tre forse sono un pò più dimenticabili) sarebbe pura follia. Quindi anziché dire qualcosa, io, rievocando il me stesso spettatore 25enne (tutto sommato chimmesencula), ho pensato di far parlare gente molto più qualificata di me: tre persone che hanno vissuto questa inaspettata rivoluzione catodica dal suo interno e che 20 anni fa erano lì.
Andrea Palazzo è nato a Bisceglie ma vive a Roma da 30 anni. Da 20 è autore del Grande Fratello, da 17 (quindi dalla terza edizione) è capoprogetto, ovvero al vertice del team autorale. Probabilmente si tratta della massima autorità in materia di GF. I giorni immediatamente antecedenti al debutto di una nuova edizione di un programma così impegnativo sono spesso un susseguirsi di prove in studio, riunioni, revisioni che stretchano una giornata lavorativa a orari degni di un impiegato della Foxconn a Zhengzhou, ma Andrea, eroicamente, trova comunque il tempo per una breve chiacchierata col sottoscritto.
Tu hai dedicato gli ultimi 20 anni della tua vita al Grande Fratello. Sono curioso di sapere qual è stata la tua prima reazione al programma quando ti hanno proposto di lavorarci.
“Mi mostrarono del footage dell’edizione olandese dell’anno precedente e io e i miei colleghi capimmo subito di trovarci al cospetto di qualcosa di radicalmente diverso da quella che fino ad allora eravamo abituati a considerare tv. Tutto, dall’illuminazione, agli spazi, ai tempi, ai personaggi coinvolti, era diverso: era qualcosa che fino a poco prima era bollabile come antitelevisivo. Gente che si gratta la testa, che sciabatta in giro senza dire nulla, che si fissa negli occhi per minuti infiniti. C’era grande curiosità guardando quelle immagini ma capii che anche quelle pause, quei silenzi, quei ‘tic’ potevano essere ‘racconto’”.
Da spettatore ricordo che restavo rapito per ore a guardare questi ragazzotti mentre si scaccolavano, disquisivano su cose superficiali, si strusciavano nei sacchi a pelo cercando di escludere il più possibile lo sguardo indiscreto delle telecamere. Quella sensazione di essere dei guardoni che sbirciano le coppiette che trombano in macchina nei parcheggi imboscati in periferia oggi si è persa: determinante è stato l’avvento dei social, grazie al quale ora siamo bombardati continuamente da dirette, post, video in cui chiunque (anche noi stessi) ci mostra le sue vacanze, dove va a farsi la ceretta inguinale, cosa mangia, l’utero della compagna che ospita la propria progenie… questo ha tolto un pò di potenza allo show.
“Esatto. Allora il programma era considerato da tutti noi una sorta di esperimento sociale, già dal titolo c’erano degli ovvi riferimenti a Orwell e la sensazione persistente era quella di spiare gli inquilini ‘dal buco della serratura’. I social, come hai detto tu, ci hanno permesso di fare la stessa cosa su scala globale: siamo tutti diventati turisti nelle vite degli altri. A quel punto il Grande Fratello ha smesso di essere un esperimento e ha cominciato a diventare un format. I meccanismi sono diventati più articolati. È diventato un vero programma televisivo. Del resto anche i concorrenti, che nella prima edizione erano davvero persone comuni del tutto ignare delle conseguenze della loro partecipazione al programma, sono con gli anni diventati molto più consapevoli e scafati. È a quel punto che sono entrate in gioco le ‘strategie’ di ognuno per andare più avanti nel gioco. Strategie che poi funzionano fino a un certo punto: quando stai chiuso in casa 24 ore su 24 per settimane, alla fine viene fuori chi sei veramente. I filtri e le maschere cadono e lasciano spazio alla personalità di ognuno. Ed è questa la forza che il GF ha e continua ad avere”.
Parlando del cast e della personalità, c’è qualcuno dei ragazzi di allora che aveva anche solo una vaga consapevolezza del fatto che il programma stava diventando un fenomeno culturale e sociale senza precedenti?
“Per noi che ci lavoravamo e avevamo contatti con l’esterno era più facile: ricordo che il set era oggetto di continuo pellegrinaggio da parte di migliaia di curiosi. Nessuno dei ragazzi aveva però la chiara percezione di fare qualcosa che avrebbe lasciato il segno, tranne forse Rocco Casalino. Lui aveva un grandissimo intuito. Aveva capito già durante la sua permanenza nella casa le cose sarebbero cambiate. Gli altri se ne accorsero davvero dopo, quando usciti da Cinecittà per andare in hotel videro i cordoni di Polizia a proteggerli dal mare umano di fan. La ricerca di fama poi è diventata anche il motore per partecipare alle edizioni successive. Molti spettatori ci dicono sempre che un sacco di concorrenti delle passate edizioni sono ‘spariti nel nulla’, additandocela come una colpa. Dimenticano però che il Grande Fratello non è un talent, non ha il compito di mettere in risalto le capacità dei partecipanti. Quello che facciamo qui è raccontare storie”.
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Qual’è il più grande convinzione errata sul GF?
“Paradossalmente dopo tutti questi anni direi che è sempre la stessa: il fatto cioè che i partecipanti al programma agiscano sulla base di un copione. Negli anni un sacco di gente ha continuato a dirci che ‘è tutto scritto’. Questo è chiaramente impossibile. Noi autori lavoriamo ovviamente moltissimo sul cast: un requisito fondamentale è che i partecipanti abbiano delle personalità forti e un vissuto interessante. Poi cerchiamo di stimolare i concorrenti attraverso ospiti inattesi, giochi, sfide, meccaniche del format, cerchiamo di prevedere eventuali archi narrativi. Ma il risultato finale, quello che si vede in tv, è sempre frutto delle interazioni spontanee degli inquilini, spesso totalmente inattese. Come quella volta che Filippo Nardi impazzì con la produzione perché era in astinenza da sigarette”.
Dopo tanti anni, c’è un aneddoto di quella prima, mitologica edizione che ricordi con piacere?
“Uno degli ultimi confessionali di Pietro Taricone prima della finale. Magari meno di Rocco Casalino, ma anche lui aveva intuito che ciò a cui stava prendendo parte avrebbe cambiato la sua vita. Ad un certo punto Pietro ci disse: ‘Ragazzi, voi la chiamate gara, un gioco, ma questo non è un gioco… è tutta n’ata cosa! Chi l’ha inventato?’ ‘John de Mol’ ‘Ecco, potete dire a John de Mol che ho pensato a dei modi per migliorarlo? Gli potete mandare questo messaggio? Da parte di Pietro da Caserta’”.
Ringrazio Andrea Palazzo poco prima che venga risucchiato nella sua ennesima riunione e telefono al mio secondo interlocutore. Si chiama Enrico Vallin: Enrico fa il fotografo, ha un bell’accento vecchia Milano e 20 anni fa, quando aveva poco più di 30 anni, in modo quasi casuale, ha scattato tutte le foto che ritraggono i primi inquilini italiani della casa e che milioni di persone hanno visto su quotidiani, periodici, calendari.
Enrico, come sei finito a fare foto nel programma che ha cambiato la faccia della tv?
“Ecco com’è andata la questione: mi telefona un giorno d’agosto Palmiro Muci, il titolare dell’agenzia PMF Fotocronache per la quale avevo da poco iniziato a lavorare, dicendomi che Maurizio d’Avanzo, un noto fotografo romano, era stato contattato dall’ufficio stampa Mediaset per fare nuovo programma televisivo di cui non si sapeva nulla e aveva bisogno di un bravo collega che scattasse a Roma, per tre mesi. Mi proposero un forfait di 200.000 lire al giorno, che facevano in tutto sei milioni di lire. La cifra era di tutto rispetto e accetto il forfait. Col senno di poi ti dico che feci una minchiata gigantesca, comunque… Scendo a Roma, si gira a Cinecittà ma mi prendono un albergo ad Anagnina, l’Hotel Vienna, il classico posto a mezza stella di prostitute che però poi mi è rimasto nel cuore. Il lavoro è semplice: noi dell’ufficio stampa stiamo in un container e guardiamo la diretta stream di quello che succede nella casa, che sta proprio lì di fronte. Ricordo bene una cosa: nessuno sapeva con chiarezza cosa stava facendo, era tutto nuovo. Il primo prime time non ebbe risultati d’ascolto clamorosi (poco meno di 5 milioni e mezzo di spettatori, che in effetti nel 2000 non era un risultato così eclatante, nda) ma noi nel container diventammo subito dipendenti: questi tipi nella casa interagivano senza interruzioni o indicazioni da parte di nessuno. Oggi è quasi banale, ma allora nessuno aveva ancora visto nulla del genere”.
Come si articolava una tua giornata di lavoro tipo?
“Guardavo tutto il tempo i monitor dello stream video nel container e quando avevo l’impressione che stesse per succedere qualcosa, correvo con la macchina fotografica in mano e andavo a scattare gli inquilini nella casa in quella zona chiamata”l’acquario”. Due volte la settimana spedivo i rullini all’agenzia a Milano, che poi sviluppava le foto e le vendeva ai giornali. Ad un certo punto gli inquilini avevano preso il giro della notte: stavano svegli a cazzeggiare fino al mattino, quando poi andavano a dormire. E così facevo anche io. Tornavo all’Hotel Vienna verso le 10:00, anche se magari poco dopo ricevevo una telefonata in cui mi dicevano cose tipo: ‘guarda che tra un pò nella casa faranno fare i massaggi ai coinquilini’. Allora io salivo sulla mia Nissan Micra rossa e tornavo indietro. Era assurdo ma in qualche modo eccitante”.
Quando hai capito che quello che stavate facendo stava diventando un fenomeno socioculturale senza precedenti?
“Le mie foto finivano sempre sui settimanali di gossip. A un certo punto, di colpo erano TUTTI i giornali a chiedere le mie foto: quotidiani, periodici patinati, tutti. I due venditori dell’agenzia eran increduli: non riuscivano a stare dietro alle richieste. Era un totale delirio. Quando scattai una foto in topless a Marina la Rosa e divenne la copertina di Panorama, una rivista che mai avrebbe cagato quella roba lì, capii che qualcosa era cambiato. L’articolo di Aldo Grasso sulla prima pagina del Corriere in cui sdoganava il GF contribuì a creare un corto circuito che coinvolse anche tutte le emittenti d’Italia: Mediaset, Rai, chiunque mandava inviati e chiedeva foto. La gente si era appassionata ai personaggi: il guerriero Taricone, Marina la gattamorta, l’ottusangolo Sergio. Era allucinante. Ci fu uno scossone che nei media italiani non era mai avvenuto prima e che non si sarebbe più ripetuto poi. Io nel frattempo vivevo nel container assieme agli addetti stampa. Ricordo che una volta venne un temporale della madonna che fece cadere un’antenna che si schiantò proprio sul nostro container: facemmo appena in tempo a scappare fuori prima che si accartocciasse per metà. Eravamo vivi per miracolo”.
Saluto il gentilissimo Enrico e mi appresto a fare una videocall con il terzo testimone di quella stagione televisiva indimenticabile, quella che oggi molti commentatori intellettuali da video di Youtube definiscono “l’inizio della fine”. Lui, più che testimone, ne fu protagonista. Conosco Sergio Volpini, anche noto come l’ottusangolo, dal 2003, quando avevo iniziato a scrivere telepromozioni a raffica (allora gli inserzionisti pubblicitari erano tanti e gonfi di soldi da investire) e Sergio faceva parte del cast fisso di Publitalia. Sin dal primo giorno sul set conobbi un ragazzo simpatico, gioviale, educato e spontaneo. Legammo subito. Da allora ci sentiamo spesso e ci vediamo sempre troppo poco. Oggi ha l’aspetto di un turnista di Iggy Pop degli anni 90 ibridato con quello di un marinaio che è scappato in Micronesia per qualche cazzata fatta in Italia.
Quando mi collego ha appena finito il suo work out quotidiano di esercizi.
Sergio, ci conosciamo da 17 anni ma credo di non averti mai chiesto come sei finito nella casa. So che ne hai parlato in qualche intervista, ma io non l’ho mai sentito raccontare da te.
“Beh Ale, io sono nato ad Ancona e sin da piccolo ho sempre fatto sport, ma sono anche un ragazzo nato negli anni 80 e 90 a pane e tv. Amavo Non E’ La Rai. Quando divenni un pò più grande capii che volevo fare televisione e così inizia a fare l’animatore nei villaggi. Del resto diversi personaggi che avevano fatto animazione nei villaggi turistici avevano poi sfondato nel mondo dello spettacolo. Erano anni in cui ti capitava di fare animazione anche per 500, 600 persone alla volta. Io avevo sempre questo gusto per lo sberleffo, per l’ironia: c’erano i balli di guppo, hai presente no? Dici ‘su le mani’ e tutti tirano su le mani. Dici ‘giravolta’ e tutti fanno la giravolta. Hai 500 persone davanti a te che fanno quello che fai tu: per me era un impulso irrefrenabile fare con le mani il gesto ‘suca’”.
Com’è stata l’esperienza nella casa?
“Posso dirti che, all’inizio, nella casa, nessuno aveva la minima idea che quello che stavamo facendo potesse essere interessante per qualcuno. Io amavo la tv: guardavo i quiz, i varietà, le fighe di Boncompagni. Quello era spettacolo. Non 10 tipi in mutande che ammazzano il tempo sul divano. Anzi, dopo la prima puntata serale qualcuno di noi (me compreso) pensò che avrebbero potuto anche chiuderci, tanto sembrava poco avvincente visto da dentro. Quando fui fuori ebbi la prova inconfutabile che non avevo capito un cazzo: dovunque mi giravo c’erano migliaia di persone, migliaia, che mi venivano incontro e mi chiedevano cose. Per due giorni dopo l’uscita passai 48 ore coi giornalisti. Cronisti di qualunque testata reale o inventata mi fecero più domande in quei due giorni che nel resto della mia vita: alcune riguardavano il programma, altre la politica, la società, i costumi, la tv… io ero in imbarazzo: che cazzo ne sapevo della politica? A chi interessava la mia opinione? Io pensavo che facendo tv avrei potuto sfruttare l’eventuale successo ottenuto, ma quello era una specie di ‘blob’, una bolla di fama che non riuscivo assolutamente a controllare. Andavo a trovare una mia amica a Roma e stavo sul balcone a fumare una sigaretta: dopo cinque minuti si radunava una folla di 1000 persone che mi chiedeva: Te la sei scopata quella? Com’è stato fare questo? Mi invitarono ai Telegatti. Io stavo in un angolo e chiaramente non sapevo che fare, quando arrivano due grandi nomi della tv (non dirò mai chi) e attaccano: ‘Non è giusto che tu sia qui senza meriti, noi ci siamo fatti il mazzo per essere qui, tu sei fuoriposto’. Una volta ero al Rainbow a Milano a vedere uno dei miei gruppi preferiti, i Good Riddance, con la mia fidanzata di allora. Ci buttiamo nel ‘pogo’ sui pezzi più tirati e a un certo punto uno mi guarda e mi fa: ‘tu sei Sergio del Grande Fratello!’. Io dissi: ‘Me l’hanno detto ma no, non sono io’. Ma lui insisteva: ‘Sì sì, sei tu!! Checazzo ci fai qui? Levati dai coglioni!’. E a quel punto iniziò a prendermi a botte insieme a degli amici suoi, mentre un altro mollava schiaffi alla mia ragazza. Per fortuna intervenne Omar, il buttafuori del Rainbow, che mollò due ceffoni ai tipi e accompagnò fuori noi. Mi dissi: ma io non posso più andare ai concerti rock perché ho fatto il GF?”
Eri abbastanza disilluso immagino. Com’è stato tornare nella casa 20 anni dopo, nell’edizione vip del 2019? I tuoi coinquilini li senti ancora?
“Pensavo che avrei fatto televisione facilmente grazie il GF. Invece feci poca televisione e difficilmente per colpa del GF. Il GF è stato come fare il liceo, l’anno scorso è stato come fare la riunione di classe del film di Verdone. Un po’ agrodolce. Con i miei coinquilini abbiamo un gruppo su Watsupp: tra poco ci rivedremo dalla D’Urso, ci vuole lì per fare ‘20 anni dopo’. L’unico che sento via sms ogni tanto è Rocco. Su di lui ti racconto una cosa: quando, una volta finito il GF eravamo nel cast fisso di Buona Domenica con Costanzo, io capii che non ero abbastanza arrabbiato, non facevo abbastanza polemica e stavo troppo sulle mie. Però vidi che Rocco si divertiva, interagiva molto più di me. Allora io gli dissi che doveva lavorare un pò sui suoi tempi televisivi, cosa che capii al volo. Non voglio arrogarmi nessun merito. Dico solo che Rocco è stato molto intelligente a sfruttare le sue occasioni. Ma è anche totalmente dedicato alla sua carriera. Ho capito dopo qualche anno che una carriera sotto i riflettori non mi interessava. Ho fatto sesso con tantissime donne famose, spesso sposate: per avere popolarità e cavalcare l’onda avrei potuto organizzare degli scoop, come si fa da sempre. Ma non mi piaceva, inoltre un amante deve essere discreto, defilato. È quello il suo ruolo. Ho fatto altro nella vita: esperienze lavorative in Perù, negli Emirati. Adesso per esempio mi sto per laureare in filosofia. Ho dato l’ultimo esame ieri”.
Congratulazioni Sergio! Se ora ti chiedo di chiudere con un aneddoto, a bruciapelo che ti viene in mente?
“Sono a casa di Kasia Smutniak e Pietro Taricone. Io quando ero a Roma mi fermavo spesso a dormire da loro. È mattina: a Kasia, bravissima attrice allora agli esordi, arrivavano già montagne di copioni mentre a Pietro, mi diceva lui ridendo, ne arrivava uno ogni morte di papa. ‘Eppure eravamo famosissimi, cosa cazzo è successo?’ Mi fa. Passammo la mattina a leggere i suoi copioni per selezionare i migliori. Ci vennero i crampi allo stomaco dalle risate. Mi manca moltissimo”.