35 anni senza il fumettista più talentuoso che l'Italia abbia mai conosciuto (con buona pace di Zerocalcare che resta un cristianone assurdo). Andrea Pazienza: San Benedetto del Tronto, 23 Maggio 1956 - Montepulciano, 16 giugno 1988. Manco gli anni di Cristo aveva raggiunto. Una spada di eroina se l'è portato via a trentadue anni, trentacinque anni fa. Overdose e occhi serrati. Andrea Pazienza è stato tante cose. Disegnava come un oracolo, un profeta sceso per illuminare noi stronzi con la sua magia, come a dire "vedete, canaglie? Ho il dono, sono la riprova che il talento esiste e che Dio me l'ha concesso". Rifletteva molto. Osservava il mondo che lo circondava (e gli anni '60/'70 erano un gran mondo), traeva spunti, scriveva frasi scarne ma affilate a corredo dei suoi fumetti dionisiaci. Diceva che non gli fotteva nulla di lavorare con la gente figa. "A un certo punto della mia vita mi sono detto: non sono nato per disegnare i guantini a Michael Jackson, o gli orologini della Watch o non mi interessa entrare nella moda. Oggi ho capito che non mi interessa il presenzialismo, non mi va di lavorare saltuariamente per la pubblicità o come grafico avendo a che fare con gente di merda. Preferisco essere definito inaffidabile, libero. Anzi, voglio rimarcare la mia assoluta inaffidabilità". E poi però faceva la copertina del disco di Gaber, la locandina della città delle donne di Fellini. Alternava cucchiaini di robba brown a repulisti nella natura, mischiava Bukowski e la Disney, buttava carne al fuoco in lavori corposi e poi dissacrava i politici della repubblica con una semplice tavola. A volte gli bastava una vignetta.
L'idea iniziale era di fare un reportage nei luoghi di Andrea Pazienza. Essenzialmente Bologna, Pescara e il Gargano, tra San Severo e San Menaio, frazione marittima di Rodi Garganico. Sembrava tutto fatto bene: un weekend a Bologna a fine maggio, il ponte del 2 giugno in giro nel foggiano e dintorni e magari una puntata casuale a Pescara intorno all'8, 9 giugno. Poi una sintesi di sensazioni, spinte e fotogrammi per scrivere un bel reportage. Volevo fotografare dove aveva vissuto. Andare sulla sua tomba, visitare il Museo dell’Alto Tavoliere dove c’è una permanente a lui dedicata, l’archivio Splash!, soggiornare due notti a San Menaio, correre sul lungomare a lui dedicato. Magari incontrare qualcuno che lo conosceva o conosceva la famiglia. Purtroppo si sa, arrivano sempre dei cazzotti nei denti che ti costringono ad arretrare e schivare e rimandare i tuoi piani e allora il reportage garganico salta per aria come una bomba carta sotto un cassonetto e la sola cosa che riesco a fare è bere una Heineken di fianco alla vecchia casa bolognese di Andrea Pazienza, in via Emilia Ponente 223, piena periferia collassata. Eppure già nel '75 lui era avanti in tal senso: bello il centro storico di Bolo, belle le Due Torri e Piazza Verdi e i vicoli i mattoni le balotte le porre di ganja ma un vero terrone foggiano come lui deve starsene lontano dallo schifo degli studenti fuorisede che si sentono tutti artisti tutti antifa brigatisti e poi non sanno come interagire con il salumiere della coop che si fa un culo come un secchio per mandare avanti baracca e burattini. Stava vicino all'Ospedale Maggiore, Paz. In centro a Bologna, semmai, ci andava ad occupare lo spazio di Via Clavature 20, dietro il Duomo di San Petronio, appannaggio del collettivo della Traumfabrik, ovvero alcuni dei pezzi della storia artistica controculturale italiana di quel periodo: Gaznevada, Skiantos, Pier Vittorio Tondelli, Stefano Tamburini, Filippo Scòzzari, Tanino Liberatore... E Paz che imbucava ogni tanto. Lì nacquero le basi per quel folleggiante e prepotente scherzo della natura editoriale che risponde al nome di Frigidaire. Dove cazzo sono finiti i giornali così? Boh. Chissà quanto si facevano nella Traumfabrik, e quando creavano là dentro. Oggi in via Clavature ci stanno i negozi di marca che appena butti un occhio o ti arriva il bodyguard che ti dice cazzo vuoi vattene oppure un commesso con l'inflessione estremamente melliflua e viscida cerca di venderti tutto e il contrario di tutto. Sulla sua vecchia casa di via Emilia Ponente ci sta una targa che lo ricorda, in marmo: Qui visse dal '75 all'84 Andrea Pazienza. Di fianco c'è una pizzeria napoletana che fa roba onesta a prezzi nemmeno troppo da rapina. A viverci ancora, Paz la frequenterebbe.
Perché Pazienza è stato così bravo? Perché non gliene è mai fregato un cazzo di arrivare nell'empireo attraverso le commercialate. "Non ho mai pensato al soldo, mentre disegnavo. Semmai subito prima, o subito dopo, mai durante" scrive in Pompeo. Perché per lui non conta un cazzo cosa è o non è arte, basta che ti smuova dentro, ti condizioni, ti faccia sbordare. La forza di Andrea Pazienza è stata la totale libera purezza. Lui è un puro. Lo sarà sempre. Anche quando nelle vignette di Pompeo si scioglievano quattro grammi di eroina, anche quando si ritraeva completamente distrutto e prostrato in ginocchio, supplicante, chiedendo ai genitori di poter tornare a vivere con loro per andare a mare insieme, ricevere camicie pulite, fare gli orecchini di ciliegia... anche nelle peggiori delle condizioni disumane, Paz ha sempre mantenuto una purezza devastante, una libertà come quelle che si prendono i bambini che fanno domande inopportune, oppure sentenziano grandi verità bibliche che tu ormai uomo fatto e finito hai difficoltà ad ammettere. La pazienza ha un limite, Pazienza no. Lui i limiti li azzera. Con Paz capisci che se vuoi, puoi fare tutto. Puoi devastare ogni concetto impolverato, puoi smantellare lo status quo, puoi creare tanti di quei personaggi di quelle trame e di quelle fregne cartonizzate da catalizzare ogni giorno un neurone diverso nel lettore. Paz ti smontava con una coltellata, con due parole. Quali sono le sue opere più importanti? Tutte, mi verrebbe da dire. Ma il triumvirato della follia è fatto da Pentothal, Zanardi, Pompeo. Di queste mine anticarro non c'è molto da dire. Sarebbe troppo complesso. Inutile fare una dissertazione-esegesi di ciascuna sua pagina. Potrei dirvi che cita Open Pussy di Bukowski in Penthotal, oppure Burroughs, o Majakovskij, ma cambierebbe qualcosa?
Ogni sua creazione ha una particolarità unica. Anche nel caos narrativo più nero di Penthotal, davvero un lavoro drogato e lisergico, ci sono pagine che ti entrano sotto pelle. Le scene di quando muore Lorusso sparato dalle guardie in Mascarella, alcune scene dei fuorisede marci o i viaggi interstellari. Zanardi è la personificazione del lato marcio degli anni '80, droga e consumismo e violenza sorda, senza senso, al ritmo di luce stroboscopica e cocaina. Poi c’è Pompeo. L’ultimo lavoro completo. Un viaggio nell’inferno personale e nella filosofia agli sgoccioli di Pazienza. Cristo, Pompeo quando lo leggi la prima volta non puoi pippartelo tutto insieme in una botta sola. Ti vengono gli attacchi di ansia, piangi, gli dici ma che cazzo fai smettila di bucarti compà. Smettila!, non lo vedi che non ti serve che sei un fottuto genio lo stesso? Non ti aiuta mica a caricare la creatività, oh! Pompeo è una botta densa di dolore e amore. Fino all'estremo. Viene da piangere a pensare a questo ragazzo dagli occhi divertiti, il sorriso che sembra lì lì per farti qualche scherzo demente, capelli ricci da sudista. Ti fa quell'effetto magico di cui parla Holden Caulfield a proposito degli scrittori bravi, che vorresti chiamarli al telefono. Ecco, con Paz è uguale e probabilmente se potessi parlarci gli direi che lo ammiro perché ha sempre avuto la fierezza di essere sé stesso, perché ha spinto duro, perché non si è arreso agli orologini Swatch e alle seratine milanesi e ai menabò di moda e a tutta quella roba che ti spacciano per arte ma è solo consumo ipercarico, iniettato peggio dell'eroina che si calava Paz. 35 anni senza Pazienza. Verrebbe facile dire peccato la droga se lo è portato via troppo presto poteva darci ancora tanto. Ma sai che c'è, Paz? È andata bene così. Hai dato tutto quello che potevi dare.