Confesso che, con le prime venti pagine, Rosella Postorino mi aveva trasportata dentro un mondo reale, vivido, potente: gli attimi di felicità dell’infanzia, con la madre il cui corpo energico inondava di luce la casa di Reggio Calabria, le canzoni di Sanremo del 1987, i costumi infilati in fretta, i baci sul collo “fino a farci male”. Finalmente una scrittrice che ha la capacità di rendere concreto uno spazio, un ricordo, un frammento di vita, come aveva fatto ne Le assaggiatrici (2018), dove il cibo, la carne, diventavano materia viva dentro le parole. Peccato che la tentazione del libello anti-fallocentrico abbia colpito ancora. Il problema principale di Nei nervi e nel cuore (Solferino, 2024) è la sua natura di handbook per madamine militanti, dove l’autrice illustra la sua visione del mondo postmoderno mescolando sei-sette citazioni prese un po’ a casaccio, senza fili rossi di sorta (per fare qualche nome: Pippi Calzelunghe, Nanni Moretti (gulp), Massimo Recalcati (doppio gulp!), i sempreverdi Pasolini e Morin, eccetera). Del resto in copertina c’è furbescamente scritto “memoriale per il presente”, e uno si chiede cosa mai vorrà dire, salvo scoprire poco dopo che si tratta di un minestrone degli interventi che Postorino ha scritto per Sette, il settimanale di via Solferino, nella rubrica che condivide con le altre erinni della letteratura italiana (Avallone, Gamberale, Ciabatti). Viene da chiedersi: possibile che gli editori italiani pur di battere cassa spaccino per opera saggistica un carosello di brevi articoli, scritti evidentemente nello spazio di un pomeriggio ciascuno, dove si passa dal #metoo ai diritti delle coppie omogenitoriali, da Anna dai Capelli Rossi agli abusi subiti dalla ginnasta Simon Biles, senza mai approfondire, tantomeno spiazzare, navigando a vista le dorate coste del marketing editoriale?
Prendiamo il femminismo: l’autrice dichiara che nel libro “soggiace una questione femminile che non può essere ignorata”, e che potrebbe “scrivere pagine intere sulla violenza delle parole che gli uomini rivolgono alle donne”. Ci aspetteremmo di leggerle, queste pagine, invece la prosa si anestetizza su didascalismi da social network, o sul desiderio di essere come Jo March di Piccole Donne, che “sognava di fare la scrittrice e non la moglie” (nel 2024, citare in un “saggio” sul femminismo Piccole Donne dovrebbe essere vietato). Ma la prova provata della superficialità dell’operazione sta nella citazione del cartone animato Candy Candy, citata pure da Chiara Gamberale come abbiamo scritto nella nostra ultima recensione: se due libri di due autrici usciti a breve distanza l’uno dall’altro utilizzano gli stessi riferimenti, delle due l’una. O Candy Candy è l’equivalente, per questa generazione, di quello che Guy Debord fu per la generazione del 1968 (ma allora sarebbe il caso di affrontare la questione criticamente: o i discorsi sulla TV Berlusconi che aveva “fottuto un’intera generazione”, per ricordare i discorsi che si facevano ai tempi del “Se non ora quando” erano tutte fregnacce?) o il procedimento utilizzato è il medesimo, scrivere in fretta, scrivere giusto per, scrivere strizzando l’occhio a una nostalgia di maniera su cui si immagina sia attanagliato il target commerciale di riferimento. Viene da chiedersi perché, tra queste nuove vatesse del post-femminismo, non ce ne sia mai una che citi Carla Lonzi o Luisa Muraro o Judith Butler o perlomeno Gaia Servadio, che con il suo Tanto gentile e tanto onesta prendeva a pernacchie il patriarcato più di mezzo secolo fa, e lo faceva col sorriso sulle labbra, senza la protervia delle foto in bianco e nero con lo sguardo semi-chiuso a guisa di intellettuale sofferente.
Esaurita l’invettiva contro il capitale fallocentrico – anche se l’autrice non riesce mai a liberare il racconto di sé dallo sguardo maschile (del padre, del barone universitario, del lettore) – la Postorino se la prende con la psicanalisi, altro classicone della letteratura italiana di oggi (si leggano, per esempio, le pagine scritte da Sandro Veronesi ne Il Colibrì, sulle donne che sono state in analisi: altro che Pio e Amedeo, tanta misoginia non ricordo di averla mai letta). Freud come capro espiatorio per le sue teorie la cui pretesa sarebbe “normalizzante, omologante; scarica sui singoli le colpe della società che costringe alla performance”. A parte la rozzezza del ragionamento, rivelatrice di una conoscenza della psicanalisi da pagina di Wikipedia, il problema, cara Rosella, non è la società, che sporca e cattiva lo è da sempre – contro cui peraltro Freud si era scontrato in Totem e Tabù – ma il fatto che la psicanalisi, come la filosofia, costringe a scontrarsi con la complessità, con la messa in dubbio, con il pensiero forte. La sua ragione sociale non è fornire risposte – come quelle che danno le Erinni di cui sopra nelle loro omelie settimanali – ma far sorgere domande. Che poi, in teoria, dovrebbe essere lo stesso scopo della letteratura, e infatti nel libro si dice che “la letteratura è il luogo in cui viene detto quel che di solito la gente non dice: perché è inopportuno, o spaventoso”. Purtroppo, in Nei nervi e nel cuore, di spaventoso, c’è solo la banalità.