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Alessandro Gassman con "Il mio nome è vendetta" dimostra che gli italiani sanno anche sparare (nei film)

  • di Riccardo Belardinelli Riccardo Belardinelli

14 dicembre 2022

Alessandro Gassman con "Il mio nome è vendetta" dimostra che gli italiani sanno anche sparare (nei film)
Si pensa che gli italiani avessero smesso di fare i film su pistole e sangue, mentre da uno strano incrocio fra Alessandro Gassman e la diciannovenne Ginevra Francescoli esce quello che al momento è il primo film per visioni fra le produzioni Netflix italiane. Un po’ John Wick un po’ Liam Neeson e un po’ Leon, fra le Alpi e Milano c’è una storia di vendetta che, dopo un’ora e mezza di visione, possiamo dirlo: è fatta bene e merita il successo che sta riscuotendo

di Riccardo Belardinelli Riccardo Belardinelli

In principio erano gli spaghetti western, poi è diventato true crime e pistolettate, infine tutta mafia. Il legame fra il cinema italiano e la violenza, le sparatorie e in generale quello che può definirsi action movie è stato per anni molto bistrattato, ritenuto poco plausibile in un contesto in cui i grandi del neorealismo e della commedia all’italiana ne hanno fatto da padrone. Poi un giovedì sera, su Netflix, quando il vento batte sulle persiane e le finanze non sono abbastanza per la settimana bianca, spunta Il mio nome è vendetta, un nuovo capitolo action del cinema italiano diretto da Cosimo Gomez e con Alessandro Gassman. Scorrendo brevemente qualche recensioni sono stato catturato subito dalla sentenza: “Il secondo film non in lingua inglese più visto su Netflix” e “Il film italiano più visto su Netflix”. Andrà benissimo, mi sono detto - per cui le pretese non erano molto alte e la sensazione di stare per assistere a qualcosa di trash era dietro l’angolo. Ma ho insistito e, arriva lo spoiler, non me ne sono pentito.

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Il mio nome è vendetta

Il mio nome è vendetta (sic) parte in Val Pusteria, dove in una comoda e ordinaria cittadina montana vive Santo (Gassman) con la sua famiglia, una moglie e sua figlia Sofia (Ginevra Francesconi). Lui lavora in un’azienda di falegnameria mentre lei è un’adolescente pomiciante con un fidanzato in moto. Tutto normale fra passeggiate nel bosco, baci e abbracci; poi lei posta una foto di lui su Instagram e subito un sistema di IA utilizzato dalla mafia siciliana - si sono evoluti dai rintracciamenti utilizzati ne Il Padrino per trovare Michael Corleone - lo scovano e mandano dei sicari a farlo fuori. Non lo trovano in casa, i criminali uccidono la moglie e il cognato e tentano di uccidere Sofia (che scappa nei boschi), così si scopre che Santo non è un sexy falegname avverso alla tecnologia, bensì un ex sicario mafioso che dopo aver ucciso uno dei figli di Don Angelo - boss della ndrangheta trasferitosi a Milano e in possesso di un impero immobiliare in espansione nel Nord Italia - aveva cambiato identità e si era rifugiato nelle valli trentine. A questo punto, inizia la vendetta di Santo e sono cazzi per tutti. Non è più Santo, ma Domenico, non taglia più gli alberi, ma fa saltare teste e denti. Insomma capisce che per salvarsi deve per forza uccidere, come ricorda la frase de Il richiamo della foresta intorno a cui gira tutto: “Uccidere o essere uccisi, questa è la legge. Mostrare pietà è solo un segno di debolezza”.

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Alessandro Gassman in Il mio nome è vendetta

Così dalle Alpi ci si sposta nell’hinterland milanese. Il ritmo è intenso e non è eccessivo per la durata (circa un’ora e mezza), la trama non è poi così scontata con vari ribaltamenti e, soprattutto, le scene d’azione non sono cafonal. Sappiamo benissimo che il rischio per un film non hollywoodiano è di tirare fuori degli effetti di scena fantozziani e scadere nell’action trash, mentre Il mio nome è vendetta vola basso, non si perde in esplosioni ingiustificate né in sparatorie fittizie - tipo caricatori infiniti, schegge che non feriscono, ferite miracolosamente rimarginate. Insomma è ordinato e nella sua umiltà scenica si fa apprezzare. Il finale - che non riveleremo - è in linea con il sentiment che si prova durante il film: niente di spettacolare, ma comunque apprezzabile (di solito la frase è: “Pensavo peggio”). Poi vabbé: per questa guerra nel Nord Italia fra la famiglia D’Angelo e i Franzé visto il finale possibile che ci sia un sequel.

Ecco il capitolo Gassman. Per un attore figlio d’arte che nella sua carriera si era diviso fra commedie d’amore e drammi familiari, con una puntata anche nell’action movie Transporter:Extreme, questo nuovo ruolo gli sta bene. Come ha spiegato in un’intervista al Corriere dello sport, Gassman ha lavorato molto sulla muscolatura, si è dovuto calare in un ruolo molto più fisico rispetto alle altre interpretazioni. D’altronde il personaggio di Santo/Domenico deve trasmettere un’idea, quella del killer inferocito che fa a botte. E se si guardano gli altri action movie su Netflix e in generale l’idea di action movie, fra Jason Statham e Jeremie Butler, nessuno ha un’icona da impiegato sedentario. Nel film quindi un ottimo Alessandro Gassman, che se per noi italiani il fatto che sia il protagonista di un revenge movie fa notizia, dal Regno Unito al Messico dove guarderanno il film sarà soltanto un Italian stallion che spacca tutto e guida sua figlia verso una vendetta famigliare. Sui commenti sui social ha suscitato poi molta attenzione e applausi Ginevra Francesconi (già vista, dai più, su Regina e Genitori vs Influencer), diciannovenne, profilo Instagram diviso fra red carpet e foto teen, quinta apparizione in un film. In Il mio nome è vendetta, per fare i sofisticati, potremmo dire che è una piccola Mathilda di Leon che segue suo papà nel mondo dei criminali. Cala cala, anche meno; eppure il suo è un personaggio non banale - ed è qui che il film si dimostra più sofisticato - e con un percorso iniziato da teen provinciale e chiuso da latitante, con crisi, pianti e molta adrenalina. Poteva essere un side character contentino per il pubblico teen, è invece co-protagonista energetica e incazzata.

Per questo e per il fatto che non ci sono stravaganze Il mio nome è vendetta è un film d’azione riuscito, apprezzato per interpretazione (gli attori sono nostri, ma le facce incazzate sembrano quelle di perfetti criminali), scenografia (è girato quasi tutto a Milano, ma potrebbe essere benissimo il sobborgo di una città americana, il Trentino un territorio montano in Colorado) e per questa storia di mafia moderna. Per livello di schiaffoni e pistolettate potrebbe anche riaprire un filone che in Italia si è perso, quello dei poliziotteschi di Castellari e Di Leo in cui il revenge, la vendetta, è spesso stato un elemento sostanziale. Abbiamo insomma capito che gli italiani non sanno solo ridere e piangere, ma anche sparare. E questo all’algoritmo di Netflix piace.

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