Il Pinocchio di Guillermo del Toro non è il primo adattamento del classico romanzo fantasy dell'autore Carlo Collodi e certamente non sarà l’ultimo (prova ne è il bruttissimo Pinocchio di Zemeckis). Il progetto che ha appassionato Del Toro per tutta la vita - sua storia preferita insieme a Frenkenstein - è affascinante, inventivo, gotico, capolavoro di un visionario ricchissimo di inventiva artigianale e di straordinario talento drammaturgico, in gestazione per 15/16 anni diventato realtà solo grazie a Netflix (bisogna dirlo, anche se questi bastardi alzano prezzi), che ha offerto soldi e libertà artistica assoluta al regista di Guadalajara. La peculiarità inedita del film non sta soltanto nella tecnica di realizzazione interamente in stop-motion, che qui raggiunge vette di creatività mai scalate prima, ma nelle licenze narrative che l’autore si è concesso rispetto al libro di Carlo Collodi, pubblicato per la prima volta nel 1881.
La storia comincia con un piccolo preambolo che ci fa vedere come il falegname Geppetto (David Bradley) sia arrivato a scolpire il bambino di legno Pinocchio (Gregory Mann) dal pino cresciuto accanto alla tomba dell'amato figlio Carlo, morto sotto le bombe del conflitto bellico. L’accettazione di questa morte da parte di Geppetto fanno arrivare il folletto del bosco (Tilda Swinton non è la Fata Turchina) che dà a Pinocchio la vita, nella speranza di donare a Geppetto quella felicità persa. Ma Pinocchio non è certamente l'obbediente figlio Carlo, e nonostante le richieste di conformarsi alle regole e alla società da parte di tutti coloro che lo circondano, compresa la sua guida designata, il Grillo Parlante (un ottimo Ewan McGregor), lo vedremo inseguire sogni ed avventure che gli insegneranno cosa significa vivere. Del Toro sceglie come palcoscenico gli anni della malaugurata entrata in guerra dell’Italia fascista, momento foriero di tragedie, per raccontare la storia di un burattino che diventa uomo proprio in un momento in cui c’è al governo un regime che vuole rendere burattini tutti gli uomini.
Questo è il Pinocchio di GUILLERMO, non c’è alcun dubbio a riguardo. Nel film, ogni individuo presente nel film si fa un'idea di ciò che Pinocchio rappresenti: per la Chiesa è un demone attaccato a fili; per il Circo itinerante è la più grande opportunità di $$$; per il governo italiano (non della Meloni) è un soldato perfetto in grado di superare i limiti umani; e per ultimo, Geppetto (mi manca sì MANFREDI e la colonna sonora di BENNATO) vede in lui solo un sostituto del figlio. Tuttavia, Pinocchio non è nulla di tutto ciò. È un promemoria festivo e contagioso di ciò che significa vivere e, cosa forse più importante, del perché fare la cosa giusta a volte può comportare andare controcorrente. DISOBBEDITE.
Detto di Pinocchio, adesso passiamo a Guillermo del Toro come uomo, limpido e coraggioso, che adoro per tanti motivi, il primo perché fu una delle mie prime grandi interviste cui ci raccontammo passione e debolezze per cimiteri e lapidi, poi perché quando cammina, ciondola, sembrando amorevolmente il Pinguino del Batman di Tim Burton, poi perché ha un’intelligenza cinematografica di settore davvero notevole; poi ancora ha nominato la sua compagnia Tequila Gang (Mexican heritage); e ha capito che l’unione fa la forza (Three Amigos con Inarritu e Cuaron) poi è uno che gives back, che produce giovani registi latini dal nulla (Muschietti, Carrera, Hermosillo, Jorge Gutierrez) perchè ha fatto Antlers (vizioso) ma soprattutto è uno che ti risponde senza peli sulla lingua, sempre sinceramente, con chiare allusioni socio politiche e referenze geo-cinematografiche, proprio per illustrare la situazione attuale di tantissimi governi e pensieri politici, che prediligono infrastrutture nazionaliste invece che realtà, verità e bene dell’umanità. Specialmente adesso che può fare quel che vuole in quel di Hollywood. Esattamente quello che è successo durante le interviste per Pinocchio, il suo PINOCCHIO, e la consegna di un premio alla Carriera per quanto fatto in favore del suo Cinema Latino.
GUILLERMO DEL TORO: “We are coming, motherfuckers”.
Già frizzante nelle pre interviste di rito e sulla passerella, dove ci racconta casa sua, non quella dove vive, ma quella in cui ha creato un museo e raccolto, collezionato tutto ciò che gli piace ed interessa, lo vediamo salire sul podio e partire, come solo lui sa fare. Ascoltiamolo. “Messicani, cubani, colombiani, portoricani, minoranze latine, persone di colore, voglio che tutti voi sappiate alcune cose che mi stanno a cuore, della nostra razza e del nostro baglio culturale. Prima cosa: Nessuno in questa stanza è solo. Nessuno. Ho sempre sentito questa affinità quando siamo arrivati qui negli anni Novanta, in quel di Hollywood, e l’impatto è stato assolutamente brutale. Ho fatto il mio primo film Cronos, a 28 anni, momento in cui mi sono sentito ‘etichettato’ come regista latino e non solo come regista, e solo 4 anni dopo ho fatto Mimic, il mio secondo film. Un’attesa forse dovuta al fatto che ero latino? Un pochino si. Volete sapere se mi sono sentito ‘osservato’ perché Latino? Sì, certo, sensazione vissuta in molti uffici di produttori. Nonostante questo, mai sarei rimasto in quella sezione di Guadalajara a fare cinema e filmi messicani solo per me, volevo Hollywood, volevo un dialogo mondiale, per farci conoscere a tutti. Anche se mai avrei pensato di fare carriera nel cinema americano, ho scritto e sviluppato 34 sceneggiature ma fatto solo 12 film, il che significa in 20 anni, mi hanno detto, a modo loro, di stare al posto mio, di non alzare la cresta. A loro ho risposto subito 'FUCK YOU’."
Gesto che ho pagato. “Dopo quelle parole sono passati altri 4 anni di inattività. Che avessero a che fare col fatto che fossi Messicano? Mi sa di sì. Ma ho continuato, producendo 12 film in lingua spagnola e di questi, ben 7 con registi al debutto, ragazzini che meritavano. Quattro anni qui, 2 lì, altri 5 ancora qui. In totale in 30 anni di carriera sono stato inattivo per 15 anni. Che questi 15 anni hanno qualcosa a che vedere con il fatto che io sia messicano? Mi sa di sì! Ma sapete una cosa? Il fatto è che stiamo arrivando, sappiate che quello che sto stiamo facendo è importantissimo. Pensate che sia una coincidenza che questo sia l'anno in cui un Elf in Ring of Power abbia la pelle troppo scura, oppure che Marilyn sia stata interpretata da un’attrice con ‘accento ’sbagliato’? Oppure che un regista di fama mondiale possa essere ambizioso e per questo venga biasimato. Non è una fucking coincidence - fottuta coincidenza perché sanno che stiamo arrivando. Siamo qui e loro lo sentono, e quando dico LORO intendo quelli che ci vedono tutti uguali, con la stessa pelle scura. E invece noi siamo panamensi, ecuadoriani, cubani, messicani, e sapete cosa, per quei motherfuckers, dovremmo essere tutti uguali. Lo siamo come spirito, dobbiamo agire come una singola unità, tutti insieme, e mostrare loro cosa possiamo fare.
Per tutta la mia vita, la gente, LORO, mi ha detto quali cose non avrei dovuto fare. Mi hanno detto quali ambizioni avere, che film fare, volevamo limitarmi a una certa tematica e basta. La mia risposta è stata: “Fuck that! Voglio fare un film di robot giganti. Voglio fare un film noir. Voglio fare un fantasy che mescoli la politica e il razzismo, voglio fare un film in stop motion incredibilmente ambizioso. Tutto quello che volevo fare, l'ho fatto, anche se ha richiesto molto tempo e sacrificio, proprio come Pinocchio. Credo nell'animazione come forma artistica che permette ai giovani dell'America Latina di esprimersi contro il potere, senza il sostegno del governo, per parlare di cose importanti per loro. Ed è molto importante ricordare che uno dei padri della stop motion è stato Marcel Delgado, un messicano. Sì, era messicano, motherfuckers! Potete andare in Argentina, Brasile, Cile e Messico, in ogni paese c'è un grande gruppo di giovani che fanno animazione. Proprio per questo ho sostenuto diverse borse di studio ogni anno che passa, e adesso stiamo per mandare la decima persona a studiare animazione con scuola, corsi e tutte le spese pagate, perché credo che una cosa sia molto importante per tutti voi/noi. Se cambiate una vita, cambiate un’intera generazione, one life can change a whole generation. È per questo che siamo qui, per aiutare loro. Prima poi moriremo tutti ed è importante quello che faremo per la prossima generazione, questa è l’unico cosa che conta. Oltre a mantenere alte le nostre ambizioni. Noi latini siamo come gli alberi, grande radici, profonde, con i rami che si estendono fino al cielo. Non smettete di ambire, e qualsiasi cosa fate, siate feroci, instancabili e letali nel disobbedire quei retaggi che ci vedono incapaci di essere o fare. Per farlo, ridico di seguire queste regole di rappresentanza per noi Latini, regole molto semplici. La prima è Non Fare Cazzate. Non dimenticare che quando lavori, in qualsiasi campo, rappresenti tutti noi. La seconda regola è sapere che non è nè sarà facile, è un'industria che ti spezza il cuore più volte, all'infinito. La terza è: nessuno di noi è solo. E quando finalmente riusciremo a livellare il campo, quando finalmente avremo le stesse opportunità e produrremo lavori artistici di qualità mondiale, dovranno chiedersi se c’entra per caso il fatto che siano LATINI? Un pochino di sicuro, motherfuckers.”