Il mare non mente. È una forza primordiale, la più immensa che esista in natura. E nonostante la sua onnipresenza nella storia umana non abbiamo ancora davvero imparato a guardarlo in modo corretto. Nella mentalità comune il mare corrisponde soprattutto alle idee di relax, di vacanza, di luogo del godimento e della sospensione temporale. Un mare addomesticato, da visitare e perlustrare a distanza di relativa sicurezza dalla terra emersa. Quando invece per la maggior parte della storia umana esso è stato il complesso delle rotte di scambio e dei commerci, ma anche l'arena delle guerre nonché vasto cimitero (vocazione, quest'ultima, che purtroppo continua a essere presente). Questa falsa visione dominante ha avuto influenza anche sul modo in cui il mare viene raccontato dalla letteratura odierna. O per meglio dire, sul modo in cui non viene raccontato. Perché salvo eccezioni che nel panorama narrativo contemporaneo bisogna proprio andare a cercare.
Una fra tali eccezioni ce la ritroviamo in questa estate del 2022, che come le due precedenti di questi Anni Venti si segnala per anomalia. Verrebbe da chiedersi se ritorneremo mai a vivere un'estate normale, e su quale parametro si possa mai etichettare come normale un'estate, dopo tutto ciò che nei mesi del grande caldo (e del mare come approdo anelato) ci siamo trovati a vivere a partire dall'anno 2020. Suggestione che rischia di portarci fuori tema, poiché l'unico motivo che ci torna utile per fare appello alle anomalie dell'estate in corso è che fra queste ci siamo dovuti sorbire un Premio Strega sempre più esagerato per dimensioni ma altrettanto in linea con la povertà qualitativa e tematica degli ultimi anni. Non amiamo i premi letterari e più volte lo abbiamo specificato. E tuttavia aggiungiamo che, se proprio durante quest'estate doveva essere premiato un libro, quel premio avrebbe dovuto essere assegnato a “Mare mosso” dello scrittore messinese Francesco Musolino (Edizioni e/o, 2002, pagine 179, euro 16). Un romanzo forte, dal ritmo incalzante, carico di suggestioni e con molti messaggi da leggere in filigrana. Il principale dei quali riguarda proprio il mare: che bisogna imparare a rispettare, unitamente agli uomini che lo solcano per mestiere e sanno quanto complicato sia scenderci a patti.
In quelle pagine si parla del mare di Sardegna. Che, ancora una volta, non è quello scenario da cartolina raccontato dai media nonché, in massima parte, alla portata di un segmento di turismo molto affluente, ma è invece uno dei mari più ostili alla navigazione. Roba da vecchi lupi, giusto per usare un'espressione stereotipa caduta in disuso e che invece Musolino non ha timore di utilizzare nel corso della lunga conversazione che ha concesso a Men on Wheels per parlare della sua ultima opera.
La storia raccontata da Francesco Musolino è ambientata negli Anni Ottanta. Per la precisione, fra la notte di Natale del 1981 e il mese di febbraio del 1982. Il suo protagonista è un uomo di mare palermitano, Si chiama Achille Vitale, ha 30 anni quando l'intera vicenda si dipana e per mestiere salva imbarcazioni e persone che si trovino in difficoltà nel mare aperto di Sardegna. La sua è un'esistenza dura, corrosa dal sale, resa essenziale dall'estremo pragmatismo che il mestiere impone ma anche dalle dure prove che la vita lo ha obbligato a affrontare. Alcune fra queste hanno inciso profondamente, costringendolo a rinunciare ai sogni e alle aspirazioni. Che nel suo caso significavano soprattutto la carriera da avviare dopo la conclusione del periodo di formazione in Accademia Navale. Un compimento che non avverrà mai per motivi che omettiamo per non fare spoiler. Per Achille giunge immediatamente un'altra possibilità, quella offerta da una ditta privata che si occupa di salvataggi e recuperi in alto mare. E in quel nuovo mestiere il protagonista trova un'altra dimensione professionale. Ma ciò avviene a scapito della dimensione sentimentale, poiché la storia con Brigitte, che sconta il trasferimento da Venezia a Cagliari ma soprattutto il passaggio da una vita centrata sulle proprie aspirazioni a un'altra curvata sui tempi e le esigenze professionali del partner, entra in crisi. Dunque per Achille Vitale anche la seconda vita è fatta di tormenti che scavano dentro tanto quanto la pelle viene indurita dal sale marino. E nel pieno di questo interminabile passaggio biografico di mutamento avviene il fatto che occupa l'intera scena del libro: il naufragio della nave Izmir, partita dalla Grecia ma totalmente fuori controllo nel mare sardo. Ufficialmente l'imbarcazione trasporta 600 tonnellate di pesce. Ma è davvero quello il carico più importante che si trova nella pancia della Izmir, nella notte della vigilia di Natale 1981? Ovvio che coi dettagli sulla storia ci si debba fermare qui, poiché il romanzo va letto. Dunque con Francesco Musolino parliamo di altro che non sia la stretta trama. Meglio andare a quel riferimento a fatti realmente accaduti.
«Può capitare che, agli scrittori, qualcuno abbia voglia di raccontare una storia. Nel mio caso è stato un lupo di mare, che una volta partecipò a un salvataggio in mare aperto. Quando ha cominciato a raccontarmi questa storia pazzesca, avvenuta nel mare di Sardegna fra il '75 e l'81, io sono stato lungamente a ascoltarlo, affascinato. Ma poi quella storia è rimasta nella mia testa per circa cinque anni, perché sul momento mi sono reso conto che non ero pronto a scriverla. Non avevo il lessico. Non ero mai stato nella pancia di una nave, non ero mai stato a bordo di un rimorchiatore, non ero mai stato in questa baia di Santa Caterina di Pittinuri [che bene viene descritta nel romanzo, ndr]. Mi ero reso conto immediatamente di avere fra le mani una storia. Una grande storia. Ma per scriverla dovevo mettermi in viaggio. È stata una storia forte, per questo non l'ho voluta portare in Sicilia, come mi sarebbe stato più comodo, e l'ho mantenuta in Sardegna. Perché avevo bisogno di osare, di cambiare scrittura».
In che senso hai dovuto ripensare la tua scrittura?
«Volevo fosse un libro che raccontasse finalmente il mare. Perché noi abbiamo tantissima narrativa di genere. Curiosamente ci sono tantissimi ispettori, poliziotto, detective, commissari, architetti. Tutti indagano, ma nessuno parla del mare. Io sono siciliano, il mare ce l'ho sempre davanti a me, al punto che quasi non lo percepisco, tanto fa parte del mio orizzonte. E mi sono chiesto come mai non si racconti il mare. Da Omero in poi raccontiamo storie per tenere a bada le paure, e cosa c'è di più pauroso del mare in tempesta? Quando mi è stata raccontata, ho capito che questa era la storia che stavo aspettando. Per questo dovevo scriverla bene, senza fretta. E ho voluto anche che fosse un noir mediterraneo, un omaggio ai libri amati».
In questo libro si racconta il mare in modo diverso, ma si scandaglia anche un'umanità a sé, quella degli uomini di mare. Che non è così facile da rappresentare, forse perché poco mainstreram.
«Questa è stata un'altra mia sfida, uscire dai percorsi ordinari del giallo italiano – che, per carità, ha una sua dignità e vende benissimo – sin dall'uso dei personaggi. Il mare, per me, ha una doppia accezione. Da una parte è l'essenza della bellezza, l'invito all'avventura, l'avvenire. D'altra parte è lo stesso mare che inghiotte i migranti, che affonda le navi, che ci fa paura. Questa doppia visione è il centro di Mare mosso. Il mare non è, in questo libro, un contesto. È proprio il centro della scena».
Insisto sugli uomini di mare. I personaggi che descrivi sono scarni, essenziali. Poche parole, atti diretti e privi di fronzoli, solidarietà istintive e vere, profonde. Quasi degli alieni, nella società odierna così parolaia e fondata su immagine e apparenza.
«Ti racconto questo aneddoto. La prima volta che sono salito su una barca per una traversata, avevo con me – e ora, dico a me stesso, da inetto – un trolley rigido. I componenti dell'equipaggio mi hanno detto subito che in mare ci si porta un borsone morbido con dentro il minimo indispensabile, perché tutto in mare è essenziale. Quando sei in mare devi cambiare la tua prospettiva, altrimenti sarà il mare a fartela cambiare. Tutte gli uomini di mare che ho conosciuto sono persone pratiche, essenziali, pronte agli inconvenienti. Perché, come faccio dire a uno dei personaggi, “in mare si scassa tutto”. Il mare non è perimetrabile. Se ci pensi, abbiamo mappato i cieli ma dei fondali marini non sappiamo nulla. Mi piaceva raccontare un'umanità che sta lontana dall'algoritmo, che scompare soltanto perché sta lontana dai nostri occhi».
C'è una suggestione che da queste pagine emerge: una diversa immagine della virilità. Quello che rappresenti è un mondo maschile, di uomini che sanno di dover fare cose da uomini e fra uomini. E l'immagine della virilità che ne emerge, sia pure con gli inevitabili chiaroscuri, è positiva, lascia buone sensazioni. Si tratta di un elemento in controtendenza rispetto alla cultura contemporanea, dove il concetto di virilità viene spesso malinteso, travolto dalla (sacrosanta) messa in discussione del dominio maschile. Come se virilità fosse un assoluto sinonimo di machismo, la premessa per l'atteggiamento di prevaricazione.
«A me piaceva l'idea che Achille fosse un uomo coraggioso. Una persona che si prende la responsabilità della propria ciurma, in un rapporto di disciplina che deve essere ferreo perché altrimenti in mare aperto non si potrebbe sopravvivere, ma comunque leale. Devo confessare che quando mi accingevo a scrivere la storia ho fatto anche dei sondaggi, per capire se potessi inserire un altro personaggio femminile oltre a Brigitte. Una donna che facesse uno dei mestieri del mare. Però ho scoperto che non era possibile, perché almeno fino al 2000 non c'erano donne nelle capitanerie di porto, o a bordo dei rimorchiatori. Dunque inserire un personaggio femminile nella storia, e in quell'epoca storica degli Anni Ottanta, avrebbe tolto credibilità a ciò che andavo a raccontare. Tornando al discorso della virilità, gli uomini di mare che descrivo sono duri ma anche fragili».
Un ulteriore motivo che emerge dalle pagine del romanzo è quello dei vinti. Nelle storie che hanno delle trame geometriche, e che in ultima analisi si risolvono con un confronto fra il Bene e il Male col Bene che si afferma, i torti vengono infine riparati. Nel tuo romanzo, come nella vita vera, questo non succede. Ci sono torti che non vengono sanati e situazioni in cui il rovescio esistenziale viene subìto assieme alla consapevolezza che non avrà riscatto. Si tratta di un atteggiamento di grande onestà verso la realtà, da parte di questo romanzo e del suo autore.
«Achille è un personaggio che sa di dover lottare sempre, di dover essere pronto a ricominciare in posti diversi e accanto a persone diverse. E comunque sì, i noir sono più vicini alla vita vera di quanto non siano altri generi letterari. E poi c'è il fatto che il protagonista della storia ha un grande senso della responsabilità, che lo porta a non tirarsi mai indietro anche se sa di avere tutto da perdere».
Ultima cosa: come mai hai voluto che il personaggio principale fosse palermitano, anziché messinese come te o proveniente da un'altra parte della Sicilia?
«Io amo Palermo. Sono uno che per le città si perde, perché sono abituato a andare in giro guardando in altro, a percepire attraverso le finestre la vita degli altri. Però quando, per esempio, mi ritrovo nel quartiere palermitano della Kalsa io riesco a orientarmi. Palermo la sento in modo particolare».
Per la cronaca, dopo appena tre settimane di presenza in libreria Mare mosso è già in ristampa. E in chiusura di conversazione Musolino si lascia scappare che potrebbe esserci un sequel. Attendiamo.